VERDI Un ballo in maschera G. Sala, L.F. Ravizza, C. Marchesini, D. Lee, L. Piermatteo, G. Todisco, A. Subacchi; Orchestra Giovanile Italiana, Coro del Teatro Regio di Parma, direttore Fabio Biondi regia Daniele Menghini scena Davide Signorini costumi Nika Campisi
Busseto, Teatro Verdi, 27 settembre 2024
Fare l’opera in un teatro di dimensioni minuscole come il Verdi di Busseto impone, oltre alla riorchestrazione delle partiture, una riconsiderazione globale dei rapporti acustici tra le famiglie dell’orchestra e tra questa e la platea: in sintesi, un lavoro di concertazione molto complicato ma che potrebbe fornire idee interpretative molto interessanti. Fabio Biondi, non venendo per formazione e carriera dal mondo dell’opera ottocentesca (pur frequentata spesso negli ultimi anni, con esiti assai variabili) poteva essere la figura esatta per un ripensamento della “drammaturgia sonora” verdiana in spazi così limitati: ma alla fine quanto ho sentito è stato estremamente deludente. Perché da una parte era il “solito” Ballo, fatto di grandi schianti sonori, di incisività drammatica e di un fraseggio ipervoltato nei momenti topici; ma dall’altra la dimensione ironica, frizzante, grottesca dell’opera – fondamentale e anzi definente la natura stessa di questo capolavoro verdiano – era del tutto trascurata, tra accompagnamenti morchiosi, suoni pesanti e privi di smalto e una qualità strumentale davvero mediocre (e in un teatrino così minuscolo le magagne vengono alla luce con evidenza crudele). Poi, se proprio non si poteva ricreare la fondamentale prospettiva sonora del terzo atto, tra banda sul palco e orchestra in buco, viene meno la sottile costruzione teatrale e sonora su cui quelle scene si fondano: e la mazurka spettrale che accompagna il duetto finale tra Riccardo e Amelia perde tutto il suo senso. Ma d’altronde un simile equivoco di concezione sonora si rifletteva anche sui cantanti: da una parte avevamo il più noto di tutti, Giovanni Sala, che è sempre il raffinato musicista che ho apprezzato in tante occasioni, ma la cui vocalità ancora delicata ed esile nei centri avrebbe avuto bisogno di tutt’altra definizione orchestrale. Però, siccome il professionista è di indubbia qualità, dopo un primo atto che lo ha visto tremare nei salti della Barcarola (salti che i “miti” di un tempo ben si guardavano dal rispettare…) e un duetto del secondo troppo timoroso, si è riscattato con un’esecuzione davvero convincente dell’aria del terzo (“Ma se m’è forza perderti”). Dall’altro lato tre voci grandi, timbrate, “all’antica”, pur di qualità variabile: il mezzosoprano coreano Danbi Lee è una Ulrica nel solco della tradizione (ma senza eccessi), con gli affondi nel registro di petto e le imperiose salite al Sol acuto nella sua aria d’entrata, mentre Ludovico Filippo Ravizza ha un colore di voce certamente privilegiato, ma il canto è un tantino monocorde, e tutto il lato dolente e piagato di Renato rimane in ombra. Ma chi mi ha colpito maggiormente è la giovanissima Caterina Marchesini, alle prese con un ruolo ispido come Amelia: dopo un’entrata in cui la voce non era perfettamente a fuoco, si è fatta valere sia nella grande aria dell’“orrido campo” (con una salita al Do intonatissima e senza prese di fiato arbitrarie) che nel commovente legato di “Morrò ma prima in grazia”. Ma quello che ne fa una verdiana di razza, sia pure in nuce, è il modo in cui morde le consonanti e distende le vocali anche in passi concitati come il terzetto del secondo atto: da seguire con attenzione. Molto bene anche lo spiritoso e piccante Oscar di Licia Piermatteo (che si concede anche qualche variazione testuale nel secondo couplet della scena della festa) e inappuntabili i congiurati e Silvano.
Lo spettacolo di Daniele Menghini ha fatto pienamente centro: una sorta di mondo alla “Pirati dei Caraibi” in cui Riccardo – Jack Sparrow costruisce un immaginario fatto di libertà, rottura delle regole, follia, continuo gioco con la morte (con una grottesca e ironica sovrabbondanza in scena di teschi e scheletri, come nei castelli del luna park). A questo mondo non appartengono i due congiurati e Renato che, infatti, vestono sempre abiti borghesi (completi o smoking): e in questo mondo viene trascinata anche Amelia, che nel duetto viene “truccata” in viso dallo stesso Riccardo. L’estetica di Menghini e del suo scenografo è pop, eccessiva, rumorosa: ma anche perfettamente rispettosa della drammaturgia e perfino delle didascalie verdiane. E persino espedienti che sembrano ormai abusati, come l’irruzione del Conte in platea nella scena di Ulrica, e il suo interagire con il pubblico, acquistano un’efficacia e una naturalezza davvero degne di nota. Un Ballo, quindi, musicalmente irrisolto ma non privo, in definitiva, di molti spunti di interesse.
Nicola Cattò
Foto: Roberto Ricci