MOZART La Clemenza di Tito B. Richter, S. Farnocchia, M. Kataeva, G. Bridelli, Y. Zasimova, J. Hopkins; Choeur du Grand Théâtre de Genève, Orchestre de la Suisse Romande, direttore Tomáš Netopil regia Milo Rau scene Anton Lukas costumi Ottavia Castellotti luci Jürgen Kolb.
Grand Théâtre di Ginevra, 16 ottobre 2024
Trasmessa per la prima volta in streaming da Ginevra nel 2021 (Covid oblige), questa produzione de La clemenza di Tito è stata poi proposta ad Anversa, Lussemburgo e Vienna, prima di tornare là dove era nata, questa volta con il pubblico in sala. La firma Milo Rau, geniale e influente regista svizzero, generalmente accostato alla corrente del cosiddetto théâtre du réel, anche se lui stesso ama precisare che il suo non è un teatro che documenta la realtà, quanto piuttosto il tentativo di “fare una rappresentazione che ha una realtà essa stessa”. Altrimenti detto (e sintetizzando al massimo): ciascun momento sulla scena deve essere, in qualche modo, reale; donde il sistematico utilizzo di attori non professionisti, di solito esponenti delle classi più trascurate della società, che portano in scena le loro stesse vite. Una poetica drammaturgica che ritroviamo in questa rilettura radicale e stimolante della Clemenza mozartiana
La scena girevole raffigura, da un lato una moderna galleria d’arte, nella quale è in corso un vernissage; dal lato opposto, una baraccopoli fatiscente, che ospita i sopravvissuti ad una catastrofe naturale (il riferimento è all’eruzione del Vesuvio richiamata nel libretto). Il tempo è un presente post-apocalittico, durante il quale Tito – qui raffigurato come un’artista di successo – fa visita agli abitanti della suddetta baraccopoli per confortarli (sia pur mantenendo le dovute distanze…); lo accompagna una troupe televisiva che ne filma le “gesta”. Appare evidente che la sua umanità è essenzialmente un calcolato atto di propaganda; il che mette in evidenza il tema principale di questo allestimento: l’arte impegnata può davvero cambiare il mondo o non è piuttosto un modo per rafforzare lo status quo? Quest’élite sociale auto-referenziale, che celebra la propria presunta benevolenza in un elegante museo, ben al riparo dai bassifondi che ospitano emarginati e reietti, è davvero interessata alle vite di questi ultimi o piuttosto se ne appropria e se ne serve a scopi utilitaristici, con il fine ultimo di consolidare e preservare la propria posizione di predominio e tramandare un’immagine nobile di sé stessa? La scritta Kunst ist Macht (“l’arte è potere”) proiettata su un telone durante quasi tutto lo spettacolo, non sembra dare adito a dubbi. Così come non dà adito a dubbi la frase pronunciata da Vitellia: “non ci può essere pietà senza dolore, non ci può essere clemenza senza colpa”. Trattasi di riflessioni che ci conducono dritti alla committenza originaria di quest’opera, composta per celebrare l’incoronazione a re di Boemia di Leopoldo II d’Austria, un imperatore sostanzialmente reazionario, ad onta della facciata “clemente” e progressista che ostentava, impegnato nella repressione dei fermenti anti-assolutisti (la Rivoluzione francese) dell’epoca. Non è certo la prima volta che la vicenda di Tito viene declinata in un’ottica negativa: ricordo personalmente una produzione del compianto Graham Vick al Regio di Torino, ambientata nel periodo del Ventennio fascista, che rendeva evidente come l’esercizio della clemenza possa costituire una forma di potere più subdola e insidiosa della violenza stessa: una vanitosa ostentazione del potere assoluto di disporre a piacimento della vita altrui.
Sulla base di questo tema di fondo, Milo Rau costruisce uno spettacolo di considerevole complessità visiva, difficile da seguire a causa della multiformità di stimoli che si sovrappongono in contemporanea: musica, scritte, proiezioni in diretta o registrate, controscene. Un esempio su tutti: durante l’aria di Vitellia del primo atto e durante alcune altre arie del secondo, uno schermo ci mostra il filmato di questo o quel figurante dello spettacolo e ce ne racconta – con l’ausilio di sottotitoli che si accavvallano al testo delle suddette arie – le vicende personali, le inclinazioni, la personalità. In precedenza, ci erano state anche mostrate le biografie degli interpreti vocali, che indugiavano su alcuni dettagli toccanti delle loro esperienze di vita. Non mancano poi le immagini forti e violente, tra cui l’impiccagione di due dei responsabili della sommossa che chiude il primo atto, anch’essa inscenata in maniera decisamente realistica, e durante la quale Tito viene assassinato (diversamente dal libretto, non vi è errore qui: è proprio Tito la vittima dell’attentato). Da segnalare anche l’allestimento di alcuni tableaux vivants che evocano celebri dipinti (La zattera della Medusa di Géricaulte La Libertà che guida il popolo di Delacroix). Fedele alla sua visione teatrale, Rau inserisce inoltre alcune scene apparentemente decontestualizzate dalla vicenda: prima dell’Ouverture, ci viene presentato un tale Dominique Dupraz, “l’ultimo ginevrino” (in senso figurato, s’intende), che in qualche modo rappresenta l’anima del Grand Théâtre e del “vecchio mondo” dell’opera, al quale due sciamane strappano il cuore, in un atto di compassione e di sacrificio insieme (cuore che ritroveremo a turno nelle mani dei personaggi nel corso dello spettacolo); nel secondo atto assistiamo all’emozionante monologo di uno dei figuranti (che incarna il crudele capo delle milizie di Tito): Gor Sultanyan, un rifugiato armeno, discendente delle vittime del genocidio del 1915-1916, che prende parte alla produzione insieme al figlio. Il regista sembra così voler rimarcare che la storia dell’umanità altro non è che la somma delle storie dei singoli.
Dopo questa seconda parentesi (accompagnata dalla Fantasia in do minore K 475), riprende il corso dell’opera vera e propria: Tito è sopravvissuto grazie alle cure prestategli da due sciamane della baraccopoli (le stesse che avevano strappato il cuore all’”ultimo ginevrino”). Acquisita, attraverso la propria “passione”, una nuova consapevolezza delle sofferenze umane, questo Tito solitario e infragilito ma rinnovato dal dolore potrà infine accordare il suo perdono a tutti coloro che l’hanno tradito, concludendo così questa singolare riflessione sull’arte in generale, e sull’opera lirica in particolare: sulla sua funzione, sui suoi destinatari, sulle sue deviazioni e corruzioni, sulla sua vitalità.
Una siffatta visione teatrale necessiterebbe di un’esecuzione musicale che quanto meno ne assecondi (e magari anche ne potenzi) l’impatto e l’originalità. Alla testa della sempre eccellente Orchestre de la Suisse Romande, Tomáš Netopil offre una concertazione corretta ma prevedibile, senza colpi d’ala, senza picchi emotivi, alquanto generica pur nel tentativo di dettare tempi incalzanti e imporre sonorità asciutte. Avremmo sicuramente preferito riascoltare il talentuoso Maxim Emelyanychev, che aveva diretto la rappresentazione in streaming del 2021 con ben altra energia, ben altra tensione, ben altra varietà di accenti. Da segnalare il taglio di quattro scene, compensato dai numerosi inserti di cui si è detto, che portano la durata complessiva dell’opera a circa tre ore (intervallo compreso). Ad onta di qualche scompostezza nel canto di agilità, Bernard Richter dispiega una vocalità penetrante e sfumata e una recitazione da manuale: ne emerge un Tito dapprima freddo e distaccato, poi tormentato e sensibile. Dal punto di vista squisitamente vocale, Serena Farnocchia viene a capo con onore dell’ardua parte di Vitellia, in forza di un canto omogeneo, controllato e stilisticamente impeccabile; più che apprezzabile anche la sua disinvoltura scenica. Il Sesto di Maria Kataeva, ad onta di una voce un po’ fioca, si fa comunque apprezzare per l’emissione sorvegliata, la coloratura scorrevole, la recitazione espressiva. Del pari meritevoli Giuseppina Bridelli (Annio) e Yuliia Zasimova (Servilia), vocalmente ruvido il Publio di Justin Hopkins, encomiabile il Coro della casa.
Paolo di Felice
(c) Magali Dougados