SPONTINI La Vestale C. Remigio, B. Taddia, J. Dahdah, D. Pini, A. Gramigni, M. Pagano; Coro del Teatro Municipale di Piacenza, Orchestra La Corelli, direttore Alessandro Benigni regia, scene e costumi Gianluca Falaschi coreografie Luca Silvestrini
Jesi, Teatro Pergolesi, 20 ottobre 2024
Fagocitato dal centenario pucciniano, il duecentocinquantenario spontiniano non ha trovato spazio nelle programmazioni dei teatri italiani, se non nella sua terra natale che, con ammirevole sforzo produttivo e celebrativo, ha messo in cantiere una prima rappresentazione in epoca moderna di un’opera giovanile (I quadri parlanti, previsti a novembre, uno dei quattro manoscritti autografi ritrovati nel 2016 nella Biblioteca del Castello d’Ursel in Hingene, Belgio) e un’importante coproduzione del massimo capolavoro, La Vestale, che in Italia mancava dalle recite scaligere del 1993. Resta, tuttavia, il rimpianto per un’occasione perduta da parte di teatri che, con risorse maggiori e palcoscenici di dimensioni più ampie, avrebbero potuto approfittare delle celebrazioni per riproporre anche altri titoli: penso a quell’Agnes von Hohenstaufen, finora nota solo in traduzione italiana, che in questo anno avrebbe potuto trovare la via del palcoscenico (e magari un’inaugurazione in un Ente Lirico) nella versione originale, in tedesco, in quanto lo stesso Spontini la considerava il suo capolavoro. Questa Vestale jesina (che approderà anche a Piacenza, Pisa, Ravenna) è dunque l’unico omaggio, per ora, a un compositore tanto celebrato in vita e, sotto molti punti di vista, anche così distante, nel suo paludato neoclassicismo, dalla sensibilità moderna. In realtà la prova del palcoscenico ha dimostrato che con gli interpreti giusti La Vestale ha ancora molto da dire alla contemporaneità, in particolare nell’appassionata costruzione del personaggio della protagonista, che nel II Atto afferma con forza il suo diritto e la sua coerenza nello scegliere la propria vita pagandone le eventuali, e pesanti, conseguenze. Lo spettacolo interamente firmato da Gianluca Falaschi aveva quindi molteplici esigenze da soddisfare: essere abbastanza agile da consentire l’allestimento in quattro palcoscenici diversi, gestire una partitura ricca e lunga (a Jesi presentata con la presenza dei due ampi balletti al I e III Atto) nonché provare a declinare il tema del teatro di regia applicato alla drammaturgia spontiniana. La scommessa, tuttavia, è sembrata vinta solo in parte: Falaschi sceglie di prendere di petto l’enorme elefante nella stanza costituito dalla presenza, nella storia di quest’opera, di Maria Callas, protagonista di mitiche recite milanesi nel 1954, e decontestualizza la vicenda rileggendola come una riflessione sulla solitudine della vita di un’artista, Julia, in cui il sacro fuoco da mantenere acceso non è quello di Vesta ma quello dell’Arte, con chiaro riferimento alla Divina. Nonostante la bellezza dei costumi e l’eleganza raffinata della scenografia l’impostazione ha, però, il torto di mettere fin troppa carne al fuoco nei riferimenti intellettuali (dal mitico abito di Zuffi indossato dalla Callas a Joan Crawford in Mammina cara) risultando quindi molto affascinante da vedere, ma un filo troppo freddo e intellettuale. Anche le coreografie di Luca Silvestrini, peraltro suggestive nell’inserirsi in questa visione psicologica, ne hanno però anche un po’ sofferto l’impostazione, dovendo rinunciare a quella “grandeur” napoleonica che è comunque un elemento caratterizzante di quest’opera. Sul palcoscenico ha trionfato Carmela Remigio, che in Julia ha trovato uno dei suoi ruoli più riusciti ed emozionanti: concentratissima nel fraseggio (davvero toccante la resa del suo addio al III Atto) e come al solito musicalmente preparatissima, il soprano abruzzese ha firmato un’interpretazione commossa e intensa che nel lungo II Atto, quello in cui la protagonista gioca tutte le sue carte, ha particolarmente colpito il pubblico presente. Brava. Più in ombra, al suo fianco, il Licinius baritonale (come da intenzioni originali di Spontini, che lo aveva destinato al tenore più grave della compagnia del debutto) di Bruno Taddia, che ha cominciato con sbandamenti d’emissione piuttosto evidenti ma che nel resto dell’opera ha fatto valere l’intensità di un fraseggio in grado di far dimenticare molti suoni non sempre esattamente a fuoco. Bene la Gran Vestale di Daniela Pini e bene anche il Cinna squillante e giovanile di Joseph Dahdah, al pari dell’autorevole Pontefice di Adriano Gramigni. Alla guida della ravennate Orchestra La Corelli e dell’impegnatissimo Coro del Teatro Municipale di Piacenza (dalle cui file proviene anche il bravo Massimo Pagano, interprete di un console e del Capo degli Aruspici) Alessandro Benigni ha impresso alla narrazione tempi drammatici e tendenzialmente serrati, riuscendo a tenere alta la tensione narrativa e al contempo cercando di valorizzare i colori dell’orchestrazione spontiniana, che raggiunge vertici suggestivi in particolare nei due ampi episodi di danza, concertati con raffinata cura. Al termine del lungo pomeriggio il pubblico ha tributato un caldo successo a tutti gli artefici dello spettacolo, con ovazioni per la Remigio e qualche sparsa contestazione per il corpo di ballo (incolpevole catalizzatore dei malumori registici, ma forse per le urla con cui i tersicori hanno stato accompagnato il finale Allegro con Moto) e per Benigni, anche se in quest’ultimo caso non se ne comprendono le ragioni. Un peccato che, a differenza del Fernand Cortez allestito a Firenze cinque anni fa (edito poi da Dynamic in cd, dvd e bluray), non sembra sia prevista una realizzazione discografica di questa Vestale: la rarità dell’opera e la cura spesa nella realizzazione, oltre alla maiuscola prova della protagonista, lo meriterebbero.
Gabriele Cesaretti
Foto: Stefano Binci