PUCCINI Tosca E. Buratto, J. Tetelman, R. Frontali, G. Manoshvili, M. Macchione, D. Giangregorio, N. Ceriani; Orchestra, Coro e Voci bianche dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, direttore Daniel Harding
Roma, Parco della Musica, Sala Santa Cecilia, 24 ottobre 2024
Quando la Tosca che, in forma di concerto, ha inaugurato la Stagione 2024-2025 dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, sarà uscita in CD (come già è annunciato), ne avremo forse un’impressione diversa da quella avuta or qualche sera al Parco della Musica. La regia e la sapienza degli ingegneri della DG ristabiliranno quei rapporti tra “orchestra e palcoscenico” che in una sala come quella di Santa Cecilia sono apparsi un po’ sproporzionati, con una tendenza dello strumentale a preponderare sulle voci e forse addirittura a debordare dalle pur vaste dimensioni dell’auditorio. Comunque sia e sarà, la direzione di Daniel Harding non somigliava a nessuna di quelle che hanno casa nella nostra antica o recente memoria. Il magistero tecnico del maestro inglese è indubbiamente strepitoso: la lucentezza, la ricchezza, la stilizzazione del dettato musicale e del caleidoscopio sonoro che ne è la tangibile epifania, sono apparse eccezionali. E in tal proposito vorremmo citare quell’apertura del Terzo Atto che di rado ci è stato dato d’ascoltare così nobilmente sontuosa eppur così dettagliata nei particolari, da sembrar un altro (e certo non il minore) dei Poemi Romani di Respighi. Non ci aspettavamo, né è infatti arrivata, una Tosca fremente, sensuale e puntata sui cantanti, con l’orchestra che fedelmente ne rifrange le passioni. Il taglio generale voluto da Harding è sinfonico, sprona le voci a farsi strumento, non ne è quasi mai al servizio. E pensa una Tosca ove il gioco delle pulsioni obbedisce quasi ad un algoritmo, è implacabile e crudele, non induce a pietas e casomai semplicemente addita le commozioni di personaggi guardati come dall’alto. Moderno – inutile dirlo – o almeno nuovo e interessante; forse ancor da mettere a fuoco, da parte del direttore come dell’ascoltatore.
Il cast assemblato era senz’altro fra i più prestigiosi oggi possibili. Eleonora Buratto è alla sua prima Floria in Italia. E nel progressivo passaggio che la cantante mantovana sta attuando dal puro lirico al lirico spinto, forse Tosca è uno step senz’altro audace e che vorremmo “di confine”, di limite oltre il quale per ora non inoltrarsi. Non siamo noi a scoprirne l’indubbia bellezza della voce (l’aveva scoperta anni fa Riccardo Muti), la naturale propensione ad un canto di morbida e italica naturalezza, ad una vocazione ai molti colori, pur sempre ambrati, forse un po’ scuri, ma certo personali e suggestivi. In Tosca ella ha mostrato queste sue doti soprattutto nel primo atto: ove certi fraseggi, certi legati, certa fragrante (e non invadente) seduzione s’effondevano con una grazia e insieme con un carattere invero molto piacevoli. Nel secondo atto la Buratto ci ha convinti di meno: gli scatti ferini, i declamati percussivi, gli slanci violenti son sembrati talora forzati, talora non supportati da una continuità nella saldezza dei registri. E dallo stesso “Vissi d’arte” ci aspettavamo invero un gioco di sfumature e una delicatezza d’acuti assai più totali. E in fondo anche l’ultimo atto fruiva dei pregi del primo e dei limiti del secondo, dato comunque merito ad un “do della lama” di squillo perentorio. Come altri hanno ben scritto, vorremmo anche noi sussurrare che qui e in altre opere che intravediamo possibili nel suo futuro, ella dovrebbe guardare al modello esemplare di Mirella Freni, impareggiata nel far proprie parti che molti le dicevano estranee; e non magari a quello di una Raina Kabaivanska, mai da seguirsi perché assolutamente peculiare. Jonathan Tetelman è un tenore di bella e sonante voce: la cui gestione non gli è sempre agevole, risolvendosi questa per larga parte in una profusione stentorea di volume e poco altro. Tuttavia nell’aria capitale dell’ultimo atto, Tetelman è parso trasformarsi ed elargire un canto tutto a mezzavoce, pieno di sfumature e d’accenti espressivi che son stati di splendida fattura e d’inedito pregio. Roberto Frontali (chiamato a sostituire l’indisposto Ludovic Tézier) è uno Scarpia rodato e di grandi qualità, soprattutto nel proporne una lettura moderna, priva di eccessi e al tempo stesso d’un venefico e affilato sadismo. Tuttavia egli è forse quello che dalla potenza dell’orchestra di Harding più ha patito. Un ottimo Angelotti veniva dal basso Giorgi Manoshvili, mentre appena incolore ci è parso il Sagrestano di Davide Giangregorio. Orchestra e cori del livello superlativo cui ormai siamo avvezzi: e forse addirittura un po’ viziati… Successo e applausi formidabili.
Maurizio Modugno
Foto: Accademia Nazionale di Santa Cecilia / MUSA