PUCCINI Tosca M. Mari, O. Jorjikia, M. Caria, T. Rosati, A. Porta, N. Resinelli, M. Zeni, V. Nurchis, L. Chili, A. Caddeo; Orchestra, Coro e Coro di voci bianche dell’Ente Concerti “Marialisa De Carolis”, direttore Gianluca Martinenghi regia Renato Bonajuto scene Danilo Coppola, Giovanni Gasparro costumi Artemio Cabassi
Teatro Comunale di Sassari, 1° novembre 2024
Nell’anno in cui si celebra il centenario della morte di Giacomo Puccini, il primo giorno di novembre l’Ente Concerti “Marialisa De Carolis” in un gremito Teatro Comunale di Sassari, in apertura della Stagione lirica autunnale, ha proposto Tosca, melodramma in tre atti del compositore lucchese su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa tratto dal dramma La Tosca di Victorien Sardou. Il Direttore artistico Alberto Gazale sceglie per il capoluogo del nord Sardegna un allestimento classico della Fondazione Teatro “Carlo Coccia” Novara per la regia di Renato Bonajuto, con scene di Danilo Coppola e Giovanni Gasparro. I costumi, firmati da Artemio Cabassi, si conformano all’impianto tradizionale, che nulla concede a plateali vanità. Ad apertura di sipario, il pubblico si ritrova dentro la Cappella Attavanti (curiosità: all’interno della Basilica di Sant’Andrea della Valle, uno dei tre scenari romani in cui l’opera è ambientata, non è presente una Cappella Attavanti, elemento di finzione del libretto, ma sembra che Puccini si sia ispirato piuttosto alla Cappella Barberini, una delle tre cappelle presenti invece nella Chiesa), dove si svolge l’intero primo atto. La partecipazione del pubblico è immersiva grazie alla profondità spaziale conferita a un’ambientazione costellata di elementi visivi realistici, che inquadra la Cappella a porte chiuse, avvolta in un disordine apparente, con un crocefisso buttato a terra di sghimbescio all’interno di una delle nicchie votive, che conferiscono dinamica tridimensionalità alla scena. La verosimiglianza stimola l’immaginazione simbolica degli spettatori, che si ritrovano nella scena estatici, inebriati dall’incenso a profusione. Anima la Cappella la presenza del pittore Cavaradossi, intento a dipingere un quadro di Maria Maddalena, cui ha dato le sembianze – circostanza che susciterà la sfrenata gelosia di Tosca – della marchesa Attavanti. È il georgiano Otar Jorjikia a impersonarlo, che già convinse nel debutto nello stesso ruolo al Teatro alla Scala, diretto da Chailly, nell’edizione 2019 firmata Livermore, come cover di Francesco Meli. Tenore dal timbro pastoso e limpido, l’adesione al personaggio è favorita da movenze naturali, dimesse a tratti senza ostentazione forzata, e da una dizione prettamente italica. Dopo il furtivo incontro con Cesare Angelotti, bonapartista ex console della Repubblica Romana, fuggito dalle prigioni di Castel Sant’Angelo – i due condividono la fede politica e si accordano per un “rifugio impenetrabile e sicuro” – sopraggiunge nella Cappella Floria Tosca, celebre cantante, che il soprano bresciano Marta Mari dota di mesta drammaticità nella manifestazione di una passione tormentata per il pittore rivoluzionario, senza mai indulgere alle pose divistiche o all’eccesso di pathos che il ruolo spesso induce. È la cifra dell’intero cast, compresi gli eccellenti comprimari, fedelmente votati all’espressione spontanea dei subitanei e variabili moti emozionali. Del pari, l’Orchestra dell’Ente De Carolis, guidata dal Responsabile musicale e violino di spalla Michelangelo Lentini e diretta dallo scrupoloso e dotto Gianluca Martinenghi, aderisce plasticamente al tessuto drammaturgico, con duplice effetto di omogeneità e rilievo tematico. Il composto timbrico dell’eterogenea compagine strumentale risulta estremamente coeso e si impasta alle voci, senza che mai il piano strumentale e quello vocale prevarichino l’uno sull’altro, con gli strumenti che ricamano scrupolosamente i contorni del florilegio di temi che, nel dipanarsi della partitura pucciniana, si avviluppano e si disciolgono in continuazione. Si direbbero Leitmotiv, se non fossero caratterizzati da grande versatilità semantica. Anche la tavolozza armonica si arricchisce vieppiù, avvalendosi di dissonanze aspre in corrispondenza degli snodi cruciali, e così la dinamica e l’agogica si fanno via via più estreme, in un crescendo espressivo che sostiene e dà vigore alle tensioni laceranti della trama.
Ed è con l’irruzione in scena del temibile barone Scarpia, capo della polizia papalina, alle calcagna del fuggiasco Angelotti con i suoi scagnozzi, che spazza via il tumulto giocoso di chierici, confratelli e allievi cantori della Cappella che nel frattempo si erano radunati a salutare festosi la presunta sconfitta di Napoleone a Marengo, che le tinte del dramma si fanno più fosche. Il baritono sardo Marco Caria ha il physique du rôle per incarnare magistralmente la tronfia tracotanza di Scarpia, di cui il giovane basso Tiziano Rosati veste bene i lacerati panni. Non da meno la prova del baritono Andrea Porta, nelle vesti del Sagrestano che raduna la nutrita folla di fedeli che popolano la Chiesa intonando il Te Deum per festeggiare la sconfitta di Bonaparte. Efficace e poderosa la chiusa del Coro dell’Ente De Carolis, diretto da Francesca Tosi, unitamente al Coro delle Voci bianche diretto da Salvatore Rizzu, che culmina con l’acclamazione di entrambi i Maestri a scena aperta alla fine del primo Atto.
Magniloquente e, nel contempo, elegante, la scenografia curata da Danilo Coppola, resa ancora più suggestiva dal light design di Tony Grandi e impreziosita dai dipinti a soggetto sacro di Giovanni Gasparro, presenti nelle varie scene dell’opera. Un’intera galleria di opere del giovane pittore barese costella la parete dello studio di Scarpia, al piano superiore di Palazzo Farnese, in apertura del II Atto. Un talento contemporaneo di rilievo che, inconsapevolmente, esaudisce il desiderio di Tosca di “far gli occhi neri” all’Attavanti. A tinte scure anche il quadro drammaturgico del II Atto, laddove le pennellate orchestrali si fanno più intense ad assecondare lo strazio di Tosca per i tormenti cui è sottoposto il suo amato. E se la tavolozza strumentale si rischiara in corrispondenza dell’aria “Vissi d’arte”, in cui la Mari brilla per la raffinatezza di fraseggio in punta di lama – in generale per tutta l’opera più fervente devota che appassionata amante – si incupisce e si ripiega in una sonorità fosca alle abiette brame di Scarpia cui la cantante sventurata risponde col fatidico e truce “bacio” affilato. Intanto, mentre già si odono i rulli di tamburi, in quella fatidica ora di vita rimasta a Cavaradossi prima della fucilazione, il terzo Atto si consuma all’interno di Castel Sant’Angelo, di cui si riproduce realisticamente la colossale scultura di von Verschaffelt dell’Arcangelo Michele che svetta sulla sommità della Terrazza dell’Angelo, che vediamo oltre le sbarre del carcere.
Le campane suonano mattutino, le sentinelle camminano avanti e indietro nella piattaforma, le carte sono pronte sullo scrittoio della casamatta: tutto è statico in scena, in un’attesa raggelante. Un picchetto scorta Cavaradossi, che guadagna la scena. È il momento della rimembranza dell’amore perduto: nell’aria “E lucevan le stelle” Jorjikia esprime un accoramento introspettivo che sfocia nel pianto, rischiarandosi appena alla speranza della liberazione che le prospetta l’amata, che sopraggiunge col fatidico salvacondotto firmato da Scarpia. È metateatro la messinscena della falsa fucilazione, di cui Tosca si fa regista suo malgrado. Conosciamo il finale, di cui l’orchestra sottolinea efficacemente la drammaticità e che il gioco di luci rende ancor più angoscioso, con un faro puntato sul corpo morto del pittore e tutto il resto in penombra. Un colpo di vero teatro, infine, il volo simulato della cantante da Castel Sant’Angelo, che par vero dallo svolazzo del mantello in aria. Il pubblico applaude con vigore a un’opera immortale così ben realizzata nelle sue passioni universali e nella sua eterna volontà di affrancarsi da un potere spietatamente esercitato, e la sopraffazione maschilista non fa eccezione.
Maggie S. Lorelli