BRAHMS Rapsodia in si op. 79 n. 1 LISZT dagli Études d’exécution trascendante: n. 12 Chasse-neige; dagli Années de pèlerinage, Suisse: Vallée d’Obermann BARTÓK Rapsodia op. 1 Sz. 26 RACHMANINOV Sonata n. 1 in re op. 28 BACH/BRAHMS Ciaccona in re per la mano sinistra pianoforte Alexandre Kantorow
Milano, Teatro alla Scala, 19 novembre 2024
Sull’ascoltatore il pianismo di Alexandre Kantorow fa un effetto simile a quello di una corrente d’aria fredda a fior di pelle, come un brivido sottile il quale non sembra trovare pace e non solo per una sorprendente digitalità, in virtù della quale le iridescenze timbriche di uno studio lisztiano insidioso e sfuggente come Chasse-neige, nel recital scaligero del 19 novembre, venivano rese con un altissimo grado di definizione, ma anche perché è un pianismo fatto di tempi rapidi e rapinosi, in un turbinio del virtuosismo e delle emozioni nel quale si rispecchia il nostro mondo frenetico.
A Teatro alla Scala il ventisettenne pianista francese di origine polacca, figlio d’arte (il padre è il direttore d’orchestra Jean-Jacques Kantorow), si è esibito nella serie dei recital riservati ai “Grandi Pianisti”, una consacrazione meritata in pieno vista l’evidenza quasi provocatoria del suo talento, che gli ha permesso di vincere nel 2019, a 22 anni, il Concorso Ciaikovski e quindi di convincere negli anni successivi pubblico e critica di tutto il mondo. Kantorow è un pianista dei nostri giorni nel suo approccio alla musica diretto e pieno di vitalità come nel suo virtuosismo sbarazzino, a Milano evidente nel modo con il quale ha affrontato le doppie ottave della Vallée d’Obermann di Liszt e del terzo movimento della Sonata n. 1 in re di Rachmaninov, esibite in assoluta scioltezza e sicurezza, un pianista lontano dalle macerazioni intellettuali ed emotive dei grandi interpreti più anziani di una o due generazioni come Pletnev e Sokolov, e lontanissimo dalla sensualità decadente degli interpreti di generazioni ancora più indietro nel tempo, come il compianto Aldo Ciccolini, ancora legate attraverso misteriosi percorsi all’eredità del Tardo romanticismo, eppure è un pianista capace di una grande capacità introspettiva, come alla Scala ha rivelato l’abbandono rassegnato al canto nella Vallée d’Obermann e l’incedere severo della trascrizione brahmsiana per mano sinistra della Ciaccona di Bach. Con il virtuosismo da solo nella Ciaccona di Bach/Brahms non si va da nessuna parte, anzi si finisce per snaturare una pagina dalla complessa struttura architettonica e contrappuntistica e per fraintendere completamente il senso di una trascrizione tesa a rendere sul pianoforte tutta la forza visionaria di un lavoro a più voci concepito però per uno strumento sostanzialmente monodico come il violino, diversamente da quanto accade, per esempio, con la trascrizione per due mani di Busoni, orientata verso una solenne monumentalità organistica. Alla Scala Kantorow l’ha collocata alla fine del recital certamente per dare un’ultima inappellabile prova del suo virtuosismo stellare (il bis concesso subito dopo, a furor di applausi, la trascrizione lisztiana della Morte di Isotta dal Tristan und Isolde di Wagner,è stato giusto un’aggiunta, anche perché Kantorow per indole appare piuttosto estraneo alle macerazioni filosofico-amorose wagneriane) ma anche per dimostrare che per lui il virtuosismo è un mezzo e non un fine.
Kantorow, infatti, è tutto tranne che un pianista programmato per vincere i grandi concorsi internazionali senza sbagliare nulla o quasi, affrontando tonnellate di musica con impeccabile professionismo e un’attenzione maniacale tanto ai dettagli quanto alle macro strutture, levigando con certosina pazienza ogni singola nota. Al contrario Kantorow è un pianista travolgente nei suoi slanci vitali, un po’ come Daniil Trifonov, anche se nel trentatreenne russo si avvertono un’inclinazione alla malinconia e una cupezza che non appartengono fino in fondo all’universo emotivo di Kantorow. È un pianista febbrile nei passaggi di agilità, come alla Scala si è avvertito fin dal primo brano in programma, la Rapsodia op. 79 n. 1 di Brahms, eppure anche capace di intensi abbandoni lirici, dal cullante tema centrale della Rapsodia al cantabile morbido, legato, sospeso sul silenzio, della Vallée d’Obermann lisztiana fino ai chiaroscuri del secondo movimento della Sonata n. 1 di Rachmaninov, tutto immerso in un sottile gioco di riflessi grazie alla minuziosa differenziazione dei piani sonori e dei piani timbrici delle singole voci. Il fatto è che in Kantorow l’alto grado di definizione dei dettagli, la sgranatura nei passaggi veloci e la pulizia dell’esecuzione si uniscono a un’ansia comunicativa che alla Scala ha reso incandescente il movimento finale della Sonata n. 1 di Rachmaninov, una vera e propria tempesta di note affrontata con spavalderia e con un senso del tragico (da notare che qui serpeggia, come in molte pagine del compositore russo, il tema funereo del “Dies Irae”) i quali hanno pochi termini di confronto tra i pianisti di oggi, se non con Trifonov, con Pletnev o con Sokolov, vale a dire con i grandissimi. Tutto questo senza esibire sonorità sontuose, alla Berezowsky o alla Matsuev per intenderci, che Kantorow non ha e che nemmeno cerca, ma creando una forte tensione attraverso il fraseggio (l’inizio greve e meditabondo della Sonata ne è stata una prova) e un uso molto consapevole del crescendo e del pedale di risonanza, senza tra l’altro alcun bisogno di fare del teatro, come ha rivelato l’austerità, anche nel suono, dell’interpretazione della Ciaccona.
È un pianista che seduce il pubblico ma non ne cerca l’accondiscendenza, anche e soprattutto nelle scelte di repertorio e di programma. A Mosca vinse il Ciaikovski affrontando il Concerto in SOL n. 2 del compositore russo invece del gettonatissimo Concerto in si bemolle n. 1, che è per tutti “il Concerto” di Ciaikovski, per poi eseguire, giusto per mettere in chiaro le cose con la giuria, il Concerto n. 2 di Brahms, uno dei concerti in assoluto più difficili, mentre per questo recital scaligero ha costruito un programma particolarmente raffinato, in cui trovava spazio tra le altre cose la Rapsodia di Bartók: è una pagina giovanile, certo un poco prolissa, la quale però si lega bene sia a Liszt sia a Rachmaninov e della quale Kantorow ha saputo far emergere tutta la seducente immaginazione virtuosistica e timbrica, mantenendone alta la tensione espressiva a dispetto di una struttura architettonica piuttosto fragile – il titolo di Rapsodia del resto non è casuale – e fatta tutta di continue illuminazioni e trapassi di umore.
Luca Segalla