La sorpresa del solenne Boccanegra di Sgura all’Opera di Roma

Claudio Sgura (Simon Boccanegra). Foto: Fabrizio Sansoni

VERDI Simon Boccanegra Claudio Sgura, Eleonora Buratto, Michele Pertusi, Stefan Pop, Gevorg Hakobyan, Luciano Leoni, Angela Nicoli, Michael Alfonsi; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Michele Mariotti regia Richard Jones scene e costumi Antony McDonald

Roma, Teatro Costanzi, 30 novembre 2024

Inaugurazione di grande vaglia quella che il Teatro dell’Opera di Roma – con un team al vertice che sembra destinato a egregie cose: Francesco Giambrone, Paolo Arcà, Michele Mariotti – ha voluto per la stagione 2024-2025: un Simon Boccanegra che, pur non essendo titolo raro al Costanzi (noi stessi ne ricordiamo almeno quattro o cinque edizioni), rimane sempre una partitura delle più importanti e attraenti del corpus verdiano. Bagliori del Macbeth come dell’Otello, del Trovatore come del Don Carlos vi passano ora fuggevoli, ora meno, ma dicono comunque il lavoro strenuo che Verdi vi dedicò: et pour cause non una sola volta. Gran parte dei presenti avevano certo memoria del risultato d’eccellenza che proprio nel Simone Riccardo Muti aveva ottenuto nel 2012. Diremmo che l’edizione di quest’anno non ha nulla da invidiare a quella, che in palcoscenico e in orchestra era pur stata ragguardevole assai. Se Muti aveva scelto una via interpretativa dove venivano in primo piano le componenti indubbiamente crepuscolari, introverse, talora liricamente rassegnate, che nel Boccanegra certo non mancano, Mariotti ha optato per una lettura più francamente drammatica, con un suono meno intimo e delicato, anzi dall’inizio alla fine “scenico”, ossia vibrante nelle procelle più furenti come nelle pagine più raccolte: e fosco, talora tenebroso, talaltra addensato di colori sombres e di luci che sembravano venir di taglio. Dinamiche estreme (quasi già con un piede nella Scapigliatura) e fraseggi sovente di commossa cantabilità, sempre di forte intento teatrale, hanno insomma reso questo Simone avvincente e convincente dall’inizio alla fine: e di sicuro fra i maggiori raggiungimenti verdiani del direttore pesarese.

Un doppio cast d’assoluto rilievo seguiva Mariotti dal palcoscenico. E il rilievo s’è visto quando, alla recita del 30 novembre, annunciata l’indisposizione di Luca Salsi, è subentrato come protagonista Claudio Sgura, che pur aveva cantato l’opera il giorno prima e l’avrebbe cantata il giorno dopo. Salsi l’avevamo visto nella differita della prima andata in onda su RAI5: rilevando il lavoro di raffinamento e di scavo ch’egli ha qui compiuto su una voce più che ragguardevole (ma il cui assetto non sempre ci era apparso coerente) e su un talento interpretativo che, al debutto nel ruolo, è apparso meglio definito e meno generico d’altre volte. Sgura è un cantante che conosciamo bene sin dai suoi esordi: la voce è meno importante di quella di Salsi (sono entrambi del 1975) ed oggi qualche lieve segno il repertorio dell’ultimo decennio sembra averlo lasciato. Eppure di rado, forse mai, abbiamo ascoltato un Simon Boccanegra condotto ad un tal livello d’arte vocale e scenica. Lo scandaglio gettato nel personaggio è profondissimo e per noi parte tutto da quella frase “Perfin l’onda del fonte è amara al labbro dell’uom che regna…”. Ecco, il Doge di Sgura è costantemente sotto il segno dell’amarezza, D’un potere non voluto, di aspirazioni a lungo frustrate e di ribrezzo per i grovigli di rettili venefici che l’attorniano; d’affetti e volti rapiti anzitempo. L’accentazione incide con energia quando Simone debba far deflagrare il suo disprezzo (“Ecco le plebi!”) o la sua disperazione (“Eco d’inferno è questo!”). E trova cento inflessioni e colori nell’aprirsi ad affetti troppo a lungo repressi (“Figlia! A tal nome palpito”) ovvero nel far il sommario della propria vita (“Ah! Ch’io respiri… Il mare! Il mar…”). L’ anelito ai “sublimi rapimenti” e la cupa malinconia della sconfitta, un’umanità mai plateale, sempre esibita con pudore e mistero, connotano questo Boccanegra di Sgura. Originale e mai prevedibile (chi canta così, come un “a parte” segreto, occhi negli occhi, la condanna di Paolo?). Se a ciò s’aggiungono una figura scenica ed una recitazione da attore potente e sensibile al tempo stesso, si comprenderà come egli giustamente sia stato alla fine accolto al proscenio da interminabili ondate sismiche d’applausi.

Gli stava di fronte ed a pari il Fiesco di Michele Pertusi. Che dopo un “Lacerato spirito” semplicemente da manuale, per un’intatta qualità timbrica e un canto solenne e doloroso insieme, ha mirabilmente dato al personaggio ora l’irriducibile durezza dell’aristocratico, ora la genuflessa istanza del penitente. I duetti nel Prologo e nel Terzo atto con il Simone di Sgura sono stati i climax della serata.

Meno assolute le raffigurazioni dei due personaggi più giovani. Eleonora Buratto ha conferito ad Amelia-Maria il suo timbro madreperlato e la sua partecipazione appassionata: forse però – l’abbiamo già notato – un voler “cantare drammatico” più del necessario rischia talora di compromettere la naturale continuità dei registri. Tuttavia non può negarsi si sia trattato d’una performance assolutamente ragguardevole. Stefan Pop cade, forse maggiormente, in una simile tentazione: quella di sviare la bellissima e sonora voce con accenti e fraseggi assai forzati e appena fuori stile, con qualche discontinuità di resa, soprattutto nel legato. Il baritono armeno Gevorg Hakobyan ha voce non sempre gradevole, ma potente e capace di dar corpo ad un Paolo Albiani pressoché ideale e che a tratti ha ricordato quello celebre di Felice Schiavi. Benissimo i ruoli minori e splendido il coro sotto l’attenta guida di Ciro Visco.

Dall’inglese Richard Jones veniva una regia assai alterna. Senz’altro curata vi appariva la direzione degli attori (ma perché quella povera Amelia quasi sempre scalza e vestita da stracciona?); e in fondo il Prologo e la scena dei giardini dei Grimaldi erano irreprensibili. Ma quel sipario, in continuo si e giù, di cartone color sabbia con porte e finestrelle; quel modesto tinello quale “stanza del Doge nel Palazzo Ducale di Genova” e quell’enorme busto bronzeo di Simone uso Ventennio, erano ognuno veramente brutto. E certa confusione nella guida delle masse (miste di coro, mimi e ballerini) non era negabile. Però va ammesso che al fondo si scorgeva una mano registica esperta e, se vogliamo dirlo, onesta. E non è poco “in tempi d’assegnati” qual oggi corrono.

Oltre che per Sgura, applausi scrocianti se ne son sentiti per tutti, in special modo per Mariotti, cui il pubblico romano par sempre più affezionato.

Maurizio Modugno

Data di pubblicazione: 2 Dicembre 2024

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