VERDI La forza del destino F. Beggi, A. Netrebko, L. Ganci, M. Rahal, L. Tézier, A. Vinogradov, M.F. Romano, V. Berzhanskaya, C. Bosi, H. Li; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Riccardo Chailly regia Leo Muscato scene Federica Parolini costumi Silvia Aymonino luci Alessandro Verazzi
Milano, Teatro alla Scala, 13 dicembre 2024
La nascita del suo primo figlio ha improvvisamente e temporaneamente allontanato Brian Jadge dalla Forza scaligera, anticipando così il debutto di Luciano Ganci, che era previsto in concomitanza con le ultime due repliche. Prima d’ora avevo ascoltato il tenore romano in vari ruoli, ante pandemia: come Carlo VII nella Giovanna D’Arco del 2016 a Parma; Stiffelio, sempre a Parma, nel 2017 (nel memorabile allestimento “itinerante” di Graham Vick al Teatro Farnese, insignito del premio speciale Abbiati 2018 e immortalato in un video Naxos); Malatestino nella Francesca da Rimini di Zandonai alla Scala (2018); Pinkerton al San Carlo nel 2019. In quelle occasioni, nel constatare le attrattive di un timbro limpido e solare e di uno squillo penetrante, rilevavo come Ganci dovesse risolvere alcune mende tecniche e proporre un fraseggio più vario ed espressivo per poter aspirare ad una carriera di alto livello. Recentemente l’ho riascoltato nel Requiem verdiano diretto da Pappano durante l’ultimo festival di Pasqua a Salisburgo, e sono rimasto impressionato dai progressi realizzati: in forza di un’emissione coperta, immascherata e, quindi, omogenea lungo tutto la gamma, il canto si è fatto decisamente più ricco e sfumato, il registro acuto perentorio e prepotente. Perciò, quando si è appreso della rinuncia di Kaufmann, avevo inizialmente confidato in una “promozione” di Ganci alla prima del 7 dicembre; capisco però la cautela di non esporre anzitempo ad un certame così temibile — col rischio di “bruciarla” — una voce potenzialmente importante dei prossimi anni.
Non ho ascoltato Brian Jagde dal vivo, quindi non sono in grado di valutarne il volume e l’impatto in teatro; nella ripresa televisiva il tenore americano mi è parso solido ma monocorde sul piano espressivo e piuttosto ordinario sotto il profilo timbrico. Ganci, invece, come notava Nicola Cattò in occasione della recente intervista concessa a MUSICA (n. 359, settembre 2024), sfoggia una schietta vocalità all’italiana. Il defatigante ruolo di Alvaro, con le sue numerose e temibili scalate all’acuto, gli è congeniale. Ma più che l’innegabile fulgore delle note estreme, ciò che mi ha più colpito è la cura del fraseggio che, lungi da calligrafismi di maniera, aderisce sempre con pertinenza al dettato drammaturgico e musicale verdiano. Un solo esempio, ex multis: in Oh, tu che in seno agli angeli, il La bemolle sulla sillaba “se” di “seno” è emesso con voce mista e intensità mezzoforte; la stessa nota, sulla sillaba “be” di “bella e incolume” del secondo verso, è invece forte e a voce piena, come peraltro suggerisce il segno di crescendo in partitura. Quanto precede rende l’idea della cura dedicata allo studio dello spartito, agevolato dal solido background musicale di Ganci, che suona organo e pianoforte e che è cresciuto cantando da bambino nel Coro della Sistina. A voler essere pignoli, esiste un minimo margine di miglioramento a livello di articolazione della parola, che si vorrebbe ancor più scolpita e con quel lieve tratto enfatico che è la tipica espressione dell’ineffabile accento verdiano.
Sul resto dello spettacolo ha già scritto Nicola Cattò (vedi qui la recensione) e condivido in larga parte le sue riflessioni per quanto concerne il cast. In particolare, concordo pienamente su quanto rilevato a proposito della prestazione di Anna Netrebko, che non avrà più la possanza vocale imperiosa e sfrontata di qualche anno fa, ma che continua a situarsi ben al di sopra di qualunque altra sua collega in questa tipologia di ruoli, nei quali mette in mostra una voce ancora calda e vibrante, assistita da una tecnica di emissione salda, e una presenza scenica carismatica. Nessuno oggi è in grado di fare meglio e le contestazioni della prima — peraltro non ripetutesi in occasione di questa terza rappresentazione — sono risibili. Concordo altresì sul fatto che Ludovic Tézier si limiti ad ostentare i suoi mezzi ragguardevoli ma non curi mai abbastanza l’espressione vocale e scenica; da un baritono di siffatti mezzi è lecito pretendere una più marcata inclinazione ad esprimere caratteri psicologicamente sfaccettati, ancorché l’irriducibile e ostinato Don Carlo sia un personaggio alquanto monolitico.
Per quanto riguarda la concertazione, Riccardo Chailly privilegia tempi indugianti che, oltre all’ovvia maggior evidenza che ricevono i dettagli strumentali, conferiscono alla narrazione un respiro epico. A tratti sarebbe tuttavia benvenuto un più intenso ardore, un qualche moto di foga ed irruenza, che pure sono nelle corde della Forza; un impeto che Chailly riserva solo a pochi e selezionati frangenti. Lodare il coro è portare vasi a Samo: un Verdi così si ascolta solo alla Scala.
Come si è già rimarcato in più circostanze, La Forza del Destino è un grande affresco frammentario e diseguale, una rapsodia formicolante di contraddizioni; ed è proprio nell’alternanza, talora repentina, dei registri che risiede il fascino e la modernità di questo titolo. Invece di imbarcarsi in velleitari tentativi di ricondurre ad unità una materia tanto irregolare e discontinua — tentazione molto frequente tra i registi che affrontano quest’opera — la messa in scena di Leo Muscato ha il merito di valorizzarne la singolare natura e financo di amplificarla, mediante l’espediente dei salti temporali, che ricorda altresì come la guerra sia una presenza costante e inevitabile nella storia dell’umanità, connaturata ad essa così come lo sono la pieta e la solidarietà. Una concezione registica, in definitiva, apprezzabile, che si sarebbe tuttavia giovata di una più accurata direzione degli attori e di un ricorso meno prudente alle controscene. Tra le immagini da ricordare, spiccano i riccioli rossi del cadavere di Preziosilla, che spuntano da sotto una coperta nell’ultimo atto: la debordante verve della zingara — impersonata magnificamente da Vasilisa Berzhanskaya — giace spenta tra le macerie di una guerra cui ella stessa aveva inneggiato con spensieratezza e noncuranza del pericolo (Viva la guerra!).
Paolo di Felice