ROTA Il cappello di paglia di Firenze Marco Ciaponi, Nicola Ulivieri, Paolo Bordogna, Didier Pieri, Gianluca Moro, Blagoj Nacoski, Franco Rios Castro, Benedetta Torre, Giulia Bolcato, Marika Colasanto, Sonia Ganassi, Federico Mazzucco; Orchestra e Coro dell’Opera Carlo Felice, direttore Giampaolo Bisanti regia Damiano Michieletto scene Paolo Fantin costumi Silvia Aymonino luci Luciano Novelli
Genova, Teatro Carlo Felice, 15 dicembre 2024
Gli anni Cinquanta del Novecento furono un decennio piuttosto fertile per la produzione operistica italiana, con teatri piccoli e grandi (Scala e San Carlo in prima fila) che non esitavano a tenere a battesimo opere nuove dei vari Pizzetti, Malipiero, Rossellini, Tosatti, Chailly, spesso affidandole a interpreti e registi di primo piano. Ma di tale sforzo creativo oggi non è rimasto in repertorio (e non certo in posizione di preminenza) che un paio di titoli, peraltro di carattere decisamente opposto: Assassinio nella cattedrale di Pizzetti (pur saltuariamente) e soprattutto Il cappello di paglia di Firenze di Nino Rota. La farsa musicale del compositore milanese, in particolare, sta vivendo di recente un momento di buona fortuna: se l’anno scorso ha visto la pubblicazione di una delle rarissime incisioni discografiche (etichetta Capriccio), in questo 2024 Il cappello di paglia è stato messo in scena alla Scala, a Bordeaux e ora a Genova, rivisitando una produzione affidata nel 2007 a un Damiano Michieletto ancora ai primi passi, anche se proprio in quell’anno già meritevole di un Premio Abbiati (per La gazza ladra al Festival di Pesaro).
In effetti l’opera ha sempre goduto di un certo successo di pubblico fin dal debutto, a Palermo nel 1955 (anche se venne composta da Rota quasi dieci anni prima): negli anni successivi venne messa in scena da Franco Enriquez a Venezia e da Giorgio Strehler alla Piccola Scala, e poi non scomparve mai completamente dal repertorio, vedendo impegnati tra l’altro nei ruoli principali (che in effetti offrono all’interprete occasione di impegnarsi e di spiccare) cantanti di prima grandezza, da Magda Olivero a Mariella Devia, da Ugo Benelli a Juan Diego Flórez. Le ragioni della sua fortuna (senz’altro agevolata dalla notorietà di un autore che all’epoca aveva già composto un centinaio di colonne sonore per il cinema, tra cui quella per La strada di Fellini giusto l’anno precedente) risiedono probabilmente nella leggerezza della trama e della musica, contrastanti con la severità imperante nel teatro musicale dell’epoca, che fosse tardo frutto della generazione dell’Ottanta ovvero delle nascenti avanguardie musicali: il libretto scritto a quattro mani dall’autore con la madre Ernesta Rinaldi (basato su una fortunata commedia ottocentesca di Eugène Labiche e Marc-Michel) propone una novella folle giornata basata sugli equivoci e sul nonsense, disponendo un meccanismo teatrale di indubbia efficacia; la musica di Rota poi è una sorta di sunto dell’esperienza operistica da Mozart a Mascagni, con particolari reminiscenze da Rossini e da Offenbach, e offre dunque al pubblico un linguaggio sicuramente familiare, ma dotato anche di una certa freschezza.
Al regista viene richiesto soprattutto di assecondare il moto perpetuo di una vicenda basata sull’esile antefatto di un cappello di paglia divorato da un cavallo, e sulla ricerca per tutta Parigi da parte del padrone di quest’ultimo, Fadinard, di un rimpiazzo identico da restituire alla proprietaria; con la complicazione che per il protagonista si tratta del giorno delle nozze. L’opera però non manca di qualche momento o personaggio d’inciampo, e il regista dev’essere accorto a non lasciare al pubblico il tempo di riflettere troppo sull’assurdità di certe situazioni, e a non eccedere nella tentazione della caricatura. L’apparato scenico predisposto da Paolo Fantin, dal quale è sparito l’orologio che nell’allestimento originario lo sovrastava per marcare il progredire di questa “folle journée”, è composto da un palcoscenico rotante, spesso su un piano inclinato, chiuso da pareti mobili, affollate di porte: “C’è un oggetto che più di tutti, a mio avviso, rappresenta lo spirito del vaudeville ottocentesco: la porta. La porta come apertura e chiusura, nascondiglio o fuga di personaggi agitati, nervosi, spiazzati dall’imprevedibile”, scriveva già diciassette anni fa Michieletto nelle note che corredavano il libretto di sala. Anche se il negozio della modista appare soltanto evocato, e il salone della Baronessa di Champigny un po’ spoglio, troppo simile all’appartamento di Fadinard, l’impianto (ottima la sinergia tra regia, scene, luci e costumi) agevola il continuo mutamento di ambienti e atmosfere dando vita a uno spettacolo svelto, particolarmente funzionale nel primo e nel terzo atto; le interazioni tra i personaggi sono ricche di dettagli e non mancano i riusciti colpi di teatro, come (nel secondo atto) l’arrivo a sorpresa in platea del “gran violinista… idolo di Parigi”, che propone la sua battuta “Io son Minardi. Spero che non sia tardi” con evidente cadenza genovese (il personaggio era interpretato dall’orchestrale Federico Mazzucco). Il pubblico in effetti si è palpabilmente divertito, confutando almeno in parte il severo giudizio espresso all’epoca da Massimo Mila (“la musica per Il cappello di paglia di Firenze è sempre spiritosa, ma non arriva a esser comica”).
Un altro grande della musicologia novecentesca, Fedele D’Amico, definì in positivo la musica di Nino Rota come una “musica senza virgolette”. Penso al contrario che nel Cappello il compositore apra e chiuda di continuo delle “virgolette”, sia nell’introdurre a ripetizione temi dall’inconfondibile carattere un poco fanciullesco, molto in tono con la vicenda, sia nei calchi in stile che propone ad ogni passo: l’episodicità costituisce in effetti la forza dell’opera, stimolando continuamente l’attenzione dello spettatore, ma anche il suo limite. Oltre a imprimere un andamento scattante alla partitura nei momenti più incalzanti, come già dimostrava l’Ouverture, Giampaolo Bisanti ha saputo con abbandono autentico inserire nella loro specifica sfera sonora numeri come il duettino tra gli sposi, l’improvviso di Fadinard in stile “Giovine Scuola” del secondo atto (“Io voglio quel cappello”), l’arioso di Elena dell’atto conclusivo (“Papà, gli voglio bene”). Seguendo la sua bacchetta l’orchestra e il coro genovesi hanno dato l’ennesima prova di flessibilità stilistica, in questo vero compendio musicale postmoderno dove non manca persino qualche occasionale, garbata “distorsione” dal sapore stravinskiano.
Ho un ottimo ricordo del versante musicale dell’allestimento del 2007, che affidava all’esperta bacchetta di Bruno Bartoletti un pool di cantanti di notevole carriera (tra gli altri Siragusa, Lepore, Spagnoli, Lazzaretti e Francesca Franci). Ma la versione 2024 non è sembrata di livello inferiore: Marco Ciaponi ha proposto un Fadinard spigliato, convincente, che non avrà lo smalto di un Flórez ma dimostra un’eccellente versatilità e incisività come cantante e come attore. Accanto a lui incantevole Elena era Benedetta Torre, che ha saputo infondere vita e calore a un personaggio che rischia invero un po’ l’effetto bambola di porcellana, particolarmente nel terzo atto. Così come Nicola Ulivieri, oltre a conferire timbro e ampiezza a tutte le note prescritte dalla partitura al padre Nonancourt (cosa non facilissima), è riuscito nella notevole impresa di farne un personaggio persino simpatico. Paolo Bordogna ha invece impresso una vocalità eroica alla Sortita di Beaupertuis: il pubblico ha gradito, tributandogli un applauso a scena aperta. Se Sonia Ganassi ha faticato un poco nella tessitura della Baronessa di Champigny, ne ha offerto comunque un’impersonificazione credibile, così come gli altri interpreti, tutti degni di lode.
Alle chiamate per gli applausi (calorosi e sinceri) ha però rubato a tutti la scena Gustavo, il simpaticissimo cagnolino di Nicola Ulivieri, che nel secondo atto accompagnava obbediente un’originale versione glam del Visconte Achille di Rosalba (Blagoj Nacoski).
Roberto Brusotti