BLOCH Quintetto n. 1 per pianoforte e archi (B. 43) SCHUMANN Quintetto in Mi bem. per pianoforte e archi op. 44 Aron Quartettpianoforte Massimo Giuseppe Bianchi
Varallo Sesia, Palazzo dei Musei (“Musica a Villa Durio”), 20 dicembre 2024
Il Novecento ci ha legato come lascito una quantità mal computabile ma enorme di scrigni sigillati, all’interno dei quali sono racchiuse le altrettanto numerose vie dell’arte che quell’interminabile “secolo breve” non seppe, non poté o non volle supportare, offuscandole sotto i fulgori delle linee maestre. Così che lo scrigno funge insieme da strumento di preservazione per (eventuali) future riaperture e da tomba nella quale finirono sepolte molte figure d’artisti le quali, al tempo, parvero non degne di esposizione. Di tanto in tanto uno scrigno vede saltare la sua serratura ad opera di qualche avventuroso speleologo dell’arte (o, talvolta, di un furbesco avventuriero faute de mieux) per ridare luce ed aria a chi vi giaceva dimenticato. Non che tutto ciò che esce dai forzieri valga la pena della riapertura ma — per intenderci — quando io ero ragazzo (non un secolo fa!), uno Janáček era ancora considerato un “minore” di interesse sostanzialmente nazionalistico e, fuor della ferrea Cortina, la sua notorietà era affidata quasi solo alla Messa Glagolitica e alla Sinfonietta, mentre le opere teatrali erano conosciute solo in Cecoslovacchia: finché non le scoperse Mackerras che, col suo leggendario ciclo per la Decca (sul quale oggi taluni alzano il sopracciglio, e non avranno solo torto, ma certo dimostrano totale mancanza di senso storico), non le impose anche a quest’altra parte del mondo, che oggi onora nel musicista Moravo uno dei Grandi della musica, favorito anche dal pubblico grosso. Sorte simile è toccata a Bohuslav Martinů, cinquant’anni fa ancora liquidato come uno sfiatato neo-classicista e — perciò — pressoché ineseguito (si salvavano, forse, i Fresques de Piero della Francesca) ed oggi conosciuto, amato e quasi integralmente registrato in dischi pregiati. Negli ultimi decennî abbiamo assistito all’abolizione del bando nazista dell’entartete Kunst, alla riabilitazione di diversi “formalisti” banditi dai caporioni sovietici e alla riscoperta o alla rivalutazione di tanti validi musicisti che non avevano seguito le iperboli delle Avanguardie, finendone schiacciati dal dinamismo e dall’aggressività ideologica: oggi vediamo che la loro posizione non era solo un tetragono conservatorismo.
Tra i compositori meritevoli di una più alta considerazione che — non ignoti — attendono ancora di essere ristudiati in profondità, sono gli svizzeri Othmar Schoeck e Ernest Bloch: il primo ebbe un effimero ritorno di voga una quarantina d’anni addietro, quando un nuovo allestimento della sua opera capolavoro, Penthesilea, suscitò ammirazione, qualche discussione critica sui mezzi di stampa e una sia pur limitata attenzione da parte di qualche casa discografica minore (la Jecklin, ad esempio, pubblicò una attendibile serie dedicata ai Lieder; ma il Notturno era stato già registrato perfino da Fischer-Dieskau col Juilliard Quartet per la Decca); Bloch paga forse ancora la celebrità dell’unico lavoro cui è deputata la sopravvivenza del suo nome, la “rapsodia ebraica” Schelomo, per violoncello e orchestra, opera per nulla spregevole ma che il liricissimo melodizzare di cui è pervasa confina all’ambito dell’opera di genere e non poco “di maniera”. Ben altri capolavori racchiude il vasto catalogo di questo formidabile musicista che — trasferitosi presto, per scelta ed opportunità, negli Stati Uniti — maneggiò e riutilizzò a modo suo diverse attitudini culturali.
La riproposta del suo primo Quintetto con pianoforte (una vera riscoperta, almeno per me, che avevo una qualche superficiale conoscenza solo dell’aforistico secondo) all’interno del minimo ma intelligentissimo festival “Musica a Villa Durio” di Varallo Sesia, nel vercellese, mi ha alquanto scombussolato le idee che m’ero finora fatto sulla poetica di Bloch. Infatti, se è pur palese che egli non aderì alle rivoluzioni avanguardiste del dopoguerra, in quest’opera del 1923 egli si cimenta nell’utilizzo dei quarti di tono, in contemporanea con i primi sperimenti nel campo di Alois Hába: il Quartetto n. 2 del moravo (come Janáček), prima sua opera ad utilizzarli è, infatti, del 1920. Oltre al tono frammentato in quarti, Bloch nel Quintetto fa ricorso anche a una sovrammissione di ritmi diversi che rendono il lavoro di una formidabile complessità tecnica. Formalmente il Quintetto si àncora, però, nella maggiore tradizione europea la quale, al tempo, ancora si riconosceva in Brahms (un altro che, a sua volta, era stato l’ultimo baluardo della tradizione classica e il primo alfiere delle rivoluzioni novecentesche, come puntualizzò Arnold Schönberg).
Dobbiamo la riscoperta di quest’opera che — anche per la sua non comune bellezza — si pone come capitale tra i capolavori novecenteschi, al formidabile Aron Quartett, un ensemble austriaco con base a Vienna, che si dedica con particolare acribia al repertorio meno noto del secolo Ventesimo: ricordiamo almeno la registrazione dei Quartetti di Korngold, del Quartetto e del Quintetto con piano di Bruno Walter, dei due Quintetti con piano di Castelnuovo-Tedesco. Questi ultimi — come il Quintetto di Bloch ascoltato a Varallo — insieme al pianista Massimo Giuseppe Bianchi, uno di quei rari italiani che si fanno conoscere all’estero per esservi andati non a prendere ma a dare. Non serviva nulla di meno per venire a capo di un’opera di tali formidabili difficoltà, tutta tesa, sia dal punto di vista tecnico che da quello dell’espressione, dalla prima all’ultima nota, in un’orgia ritmica gestibile solo da virtuosi dalle non comuni capacità e in una drammaticità tellurica che non ha guari. Nemmeno in certe straniate marce shostakoviane. Con Bloch siamo a mezzo tra il Karl Kraus degli Ultimi giorni dell’umanità (completato nel 1922, un anno prima del Quintetto) e — però in anticipo di un anno, ma i percorsi dell’arte sono sempre misteriosi e consentono l’ipòstasi — la Montagna incantata (pubblicato nel ’24). Ossia, tra il rovente delirio delle mille voci che si sovrappongono — nella realtà bellica descritta da Kraus, come nell’opera di Bloch — di quella età del massacro, quale la disse lo stesso Kraus, e la parodizzazione ironica — tra il cinico e il grottesco — dell’irrazionalità della guerra, che ritroveremo nel monumento manniano.
Il riscoperto capolavoro di Bloch è stato confrontato da Bianchi e l’Aron con il celebre Quintetto di Schumann. Un accostamento giusto, pensavo ascoltando Bloch, ma non tanto per l’opera in sé, quanto per il compositore: più affine alla complessa poetica blochiana mi sembrava, infatti, lo Schumann tardo e delirante del Manfred, soprattutto, ma anche dei Märchenerzählungen e dei Gesänge der Frühe, del sottostimato Requiem e delle Geistervariationen. Ma il taglio impresso dai musicisti al quintetto schumanniano — caricando di ironia la Marcia funebre del secondo movimento e di grottesche allusioni lo Scherzo (oltretutto abbordato a una velocità quasi assurda e con un fraseggio sovraesposto che innescavano una inusitata tensione in quel movimento solitamente transitorio) — davano ragione alla scelta: confermando le mie impressioni, ché in più di un’occasione sembrava proprio di vedere saltellare tra i musicisti il Carmelo Bene vestito da Pinocchio mentre declama i delirî dello scisso personaggio byroniano!
Solo gli artisti più consapevoli riescono ad inchiodare il pubblico alla seggiola per un’ora e mezzo senza che voli una mosca, sfugga un rospetto di tosse, la tensione dell’ascolto estremizzata — come i fraseggi incandescenti degli artisti — in una concentrazione cui non siamo più avvezzi. Che la storia della musica abbia fatto una tappa importante a Varallo — un paesello grazioso, arroccato in una dimensione temporale astratta, ove dopo il concerto non si è riusciti a trovare uno straccio di pizzaiolo o paninaro disposto a ristorarci un poco — sta tra il paradosso e il genio sempre capriccioso della storia. Ma chi c’era lo sa e non se ne dimenticherà.
Bernardo Pieri