VERDI Falstaff A. Maestri, L. Micheletti, J.F. Gatell, A. Siragusa, C. Collia. M. Spotti, R. Feola, R. Cid, M. Pizzolato, M. Belli, M. Barbiero, G. Tibaldi; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Daniele Gatti regia Giorgio Strehler scene e costumi Ezio Frigerio
Milano, Teatro alla Scala, 18 gennaio 2025
Non è facile capire il senso della riproposta, in questa stagione scaligera, del Falstaff secondo Giorgio Strehler: il mitico allestimento, infatti, nato il 7 dicembre 1980 e ripreso innumerevoli volte (dal 1993 al 2004 con la bacchetta di Riccardo Muti), era stato sostituito nel 2013 da quello di Robert Carsen (con la direzione di Daniel Harding, mentre la ripresa del 2015 fu affidata a Daniele Gatti) e poi da quello di Damiano Michieletto nel 2017 (con un crepuscolare Zubin Mehta sul podio). Molto bello lo spettacolo di Carsen e ancora di più quello del regista veneto: in cui evidentemente la Scala non ha creduto, ma che si potrà rivedere il prossimo marzo al Carlo Felice di Genova. La domanda è spontanea: perché tornare a Strehler? E che senso ha riproporre uno spettacolo nato 45 anni fa? L’operazione archeologica è stata compiuta da Marina Bianchi con molta fedeltà e altrettanta professionalità e non c’è alcun dubbio che rivedere (anche per chi come me negli anni ’90 era un ragazzino) la grande cascina con i mattoni forati, le ampie botti su cui Falstaff si adagia come un sovrano di campagna, le luci morbide e crepuscolari della nostra pianura padana sia stato un meraviglioso tuffo al cuore. Ma poi? Le mosse e mossette, la recitazione talora freschissima (le scene tra Fenton e Nannetta, che non hanno perso nulla in poesia) ma talora manierata (la scena finale, certamente la meno riuscita nel suo insistere in manierismi “stile Piccolo Teatro” di ogni tipo) e tutto quel teatro strehleriano che cinquanta, sessant’anni fa fu rivoluzionario, oggi possono ancora funzionare? Secondo me sì, ma solo se la intendiamo come un’operazione archeologica, filologica, all’insegna del “come eravamo” (o “come erano”). Che poi questo Falstaff tenga il palcoscenico molto, molto meglio delle ormai improponibili Nozze o (ancora peggio) del Ratto del regista triestino, è un dato di fatto: ma anche un segno di un indirizzo artistico, da parte del teatro milanese, certo non univoco, e che strizza troppo l’occhio al fruitore occasionale, al turista, o al nostalgico.
Come si è detto, Daniele Gatti aveva già diretto l’opera a Milano dieci anni fa: una tappa di un lungo percorso, iniziato all’Auditorio Pio di Roma nel febbraio 1997. Ventotto anni in cui il grande direttore milanese, che le voci vogliono successore di Chailly alla guida della Scala, non ha mai cessato di ripensare il suo rapporto con l’estremo capolavoro verdiano, che oggi egli legge non già all’insegna di un’esattezza inesorabile, di una brillantezza quasi stravinskiana, insomma in quella linea che da Toscanini passa per le furenti esagerazioni di Bernstein e arriva al miracoloso equilibrio mutiano. No: se vogliamo pensare ad una paternità ideale del Falstaff di Gatti dobbiamo risalire a Karajan (magari non quello degli anni ’80) e passare per Giulini, ossia una lettura posata e riflessiva, dove il tratto melanconico e crepuscolare del terzo atto sembra, a ritroso, invadere anche i precedenti. Ma il tutto arricchito da un incredibile livello di dettaglio orchestrale, con la messa in risalto davvero virtuosistica di certi particolari di orchestrazione e una ricchezza dinamica altissima, un’elasticità nello stacco dei tempi persino sorprendente. Tutto bene, quindi? No, perché l’elemento comico, brillante, effervescente che è parte basilare dell’opera risultava troppo trascurato (le scene tra le quattro comari, ad esempio), alcuni momenti vedevano inattesi scollamenti col palcoscenico e, in sintesi, la dimensione teatrale era univocamente spinta verso i momenti meditativi, che peraltro erano in perfetta sintonia con la “tinta” strehleriana (e pur risultando di perfetta efficacia la seconda parte del secondo atto, con un’orchestra di furibonda spinta). Ma che un direttore di tale livello sia stato oggetto di pur sparute contestazioni da parte di qualche figuro presente in galleria è qualcosa davvero che fa trasecolare.
La compagnia di canto, interamente italiana o assimilabile (la spagnola Cid e l’argentino Gatell), era di buon livello, ma pativa l’ormai palese inadeguatezza del protagonista, Ambrogio Maestri, che dal 2001 ha imposto un dominio assoluto sul ruolo a Milano, con l’eccezione dell’edizione 2015 (proprio quella diretta da Gatti) con un ottimo Nicola Alaimo, artista su cui la Scala pare avere posto una incomprensibile damnatio memoriae dopo il pur infelice Pirata del 2018. All’epoca Maestri era un trentunenne dal physique du rôle adeguato e soprattutto un giovane cantante dalla voce di eccezionali qualità naturali (timbro, estensione, volume), cui il lavoro certosino con Muti permise di realizzare un ritratto memorabile di Sir John, ruolo feticcio da lui ripreso in ogni teatro del mondo fino ad oggi. Ma Maestri ha sempre fatto affidamento su una vocalità, appunto, molto naturale e su un istinto teatrale un po’ brado che, a 55 anni, presentano il conto: le odierne, diffuse difficoltà vocali (che prescindono da eventuali, temporanei problemi di salute, peraltro non annunciati) sono del tutto ovvie e il Falstaff spento, dimesso, arrochito, dai falsetti problematici che si è sentito ieri sera rende ancora più assurda la scelta della Scala di non avere mai offerto un alternativa al baritono pavese in quasi un quarto di secolo. Tra le comari, Rosa Feola mostra la solita squisita eleganza ma difetta della polpa rustica (sia a livello vocale che di spirito) che dovrebbe connotare Alice (risentirsi Mirella Freni per avere chiari i termini) mentre Rosalia Cid era parsa più a fuoco nella Rondine di qualche mese fa, pur avendo anche ieri palesato un canto di apprezzabile purezza; e alla piacevole Meg di Martina Belli si è accostata la Quickly spiritosa, ma un po’ consunta, di Marianna Pizzolato. Juan Francisco Gatell era un Fenton davvero troppo esile (e la memoria corre a Vargas, a Flórez che cantarono il ruolo nelle riprese: perché quando si risvegliano i ricordi, il rischio è questo…), mentre Antonino Siragusa ha saputo riproporsi in un ruolo di contorno (Dott. Cajus) con gusto e bella voce. Ma il migliore era senz’altro Luca Micheletti: per la disinvoltura dell’attore, per l’intelligenza del cantante (che meraviglia il suo fraseggio nella scena con Falstaff e nel monologo delle corna, con particolari davvero illuminanti) e per la brunitura di un timbro che sostiene una vocalità che, senza essere di fluviale generosità, è perfettamente adeguata alla scrittura verdiana. A quando il salto a Sir John?
Buon successo, con le citate, isolate contestazioni a Gatti ed altre, in corso d’opera, a Maestri.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala