Giovanna d’Arco e la tomba di fiori

VERDI Giovanna d’Arco L. Ganci, N. Machaidze, A. Ganbaatar, F. Congiu, K. Bączyk; Filarmonica Arturo Toscanini, direttore Michele Gamba Coro del Teatro Regio di Parma, maestro del coro Martino Faggiani regia Emma Dante scene Carmine Maringola costumi Vanessa Sannino coreografie Manuela Lo Sicco

Parma, teatro Regio, 24 gennaio 2025

«Nella mia idea di messa in scena – scrive Emma Dante nelle ‘Note di regia’ allegate al libretto di sala – dalle ferite nascono i fiori». Idea non originale, risalendo ad Apollinaire e ai “trois grands lys” (guarda caso proprio i gigli di Francia) che spuntano dalla bocca, dal cuore e dalla ferita d’un cadavere suicidé: una poesia resa celebre da Shostakovich che l’utilizzò nella sua Quattordicesima Sinfonia. Ma la Dante non cita la sua fonte poetica: che ci sia arrivata al modo in cui il “merlo maschio” partorì la “gazza ladra”? Ma soprattutto, quel che la regista scrive nelle sue coerenti ‘Note’ non corrisponde a quanto si vede sulla scena, ove l’eccessivo ricorso al simbolismo misticizzante scade nel didascalico, col portare in primo piano ciò che nella drammaturgia verdiana è sottinteso e nella musica quasi sempre defilato fuori scena, sì che le dichiarate intenzioni (buone o meno che fossero) sembrano essere rimaste sulla carta. Di fatto, la regìa non si cura degli attori lasciati a sé stessi, salvo qualche non determinante indicazione a Giovanna, e parve fungere non da guida ma da sovrastruttura all’impianto drammaturgico, piuttosto aliena e alla scena e alla musica. Lo stesso insistere sulle turbe, le incertezze di Giovanna – senza peraltro che questo abbia un’incidenza determinante sulla realizzazione scenica, come detto, se non per una invadente presenza ‘fisica’ di demoni e spiritelli (tra l’orribile e il ridicolo le coreografie) – contrasta con la figura tratteggiata da Verdi, ove purezza virginale e tentazioni demoniche (in fondo si trattava decidere se votarsi all’amore spirituale della causa nazionale o cedere a quello carnale cui la tenta il Re) sono in Verdi poco più che spunti per dei formidabili effetti scenico-musicali: e Giovanna capisce quasi subito di amare il Re meno come uomo che in quanto personificazione della Francia, e alla patria si vota nell’estremo sacrificio della sua vita. Per questo, anche, Giovanna non si discolpa di fronte alle accuse del padre (censurate o meno che siano): perché essa sa di essere una compenetrazione di opposti, l’eccezione mistica in cui bene e male (madonna e diavolo) tornano a coincidere come solo in Dio – ove la distinzione tra bene e male non ha luogo – possono coincidere, perché essa è insieme inviata della madonna e amante: che lo sia d’un Re e solo spiritualmente non può contare. Resta l’impianto scenografico, negli spettacoli della Dante sempre di bell’impatto visivo.

Scarso apporto venne dal direttore Gamba, la cui modestia in fatto d’idee interpretative è testimoniata – oltre che dalla sua pressoché esclusiva attenzione verso quanto accade in buca, disinteressato ai cantanti, dei quali non asseconda quasi mai il respiro di frase – dalle ‘Note di direzione’, ove il direttore insiste oltremodo su un presunto donizettismo dell’opera e su una sua pretesa tradizione interpretativa tutta arrembante, rude e grezza, disattenta alle tinte intimistiche di cui essa farebbe – anzi – vantato sfoggio. Ma dove ritrova, il maestro, la vocalità diafana di Lucia – gli strumenti dell’eroina donizettiana sono l’arpa, il flauto e la liquidissima glassharmonica – in quella ardimentosamente scolpita di Giovanna (“ah, se un dì m’avesse in dono una spada ed un cimier”); e come può dirsi che Jimmy Levine o Bruno Bartoletti (in una pur non felicissima ripresa festivaliera dell’opera, 2008), l’antico Simonetto d’una storica ripresa radiofonica nel 1951 o il Michelangelo Veltri in stato di grazia delle celebri recite parmensi nel 1980, con la Gulin non solo straripante e Cecchele memorabile, avessero concertato la Giovanna in una maniera tanto sommaria? Tutti quei maestri, anzi, splendidamente colsero sia l’aspetto buio, un poco torbido, che l’opposizione degli ampî quadri corali alle scene di più ripiegato meditare, in quella solitudine dell’anima che contrasta con l’essere i personaggi quasi sempre… in compagnia (l’unico a ritrovarsi, per un momento, solo in scena è Giacomo durante la sua seconda aria, resa dei conti con la propria coscienza di padre, di devoto e di patriota: nei tre casi, traditore di sé stesso e degli altri per troppa convinzione di un ‘giusto’ astratto).

Nino Machaidze fu, anch’essa, una forte delusione (non pel pubblico, che l’applaudì): il timbro non è bello e – quello sì – un poco grezzo, la dizione disarticolata (non si capisce una parola, con tanti saluti alla ‘parola scenica’ verdiana, così determinante per Giovanna), il fraseggio è senza incisività, il canto privo del necessario sostegno del fiato alle ampie campate di frase che Verdi richiede anche a Giovanna, le fioriture del canto approssimative e sempre un tantino faticose, spezzate: resta qualche acuto fulminante, ma sempre come separato dal resto, o dal salto nell’emissione o da un fiaticello rubato prima di sparare la folgore.

Maestro, nell’ampiezza del canto per frasi campìte su fiati lunghissimi, è stato, invece, Luciano Ganci, il quale si presenta in scena mostrando autorevolezza di fraseggio (il recitativo d’entrata fu memorabile e degno dei recitativi celebrati di un Bergonzi, che la Giovanna la fece riscoprire, sia pure per radio, nello storico cinquantenario verdiano) e – dato mai scontabile in partenza per un tenore – pari autorevolezza scenica. Delibata l’aria con timbro brunito ma morbido, smalto rotondo ma lucente, acuti (i pochi che ci sono, non impervî) squillanti senza sfoggio, arcate di frase sempre controllatissime, il Ganci dolorosamente franò nella cabaletta: dopo una prima strofa esposta con fin micragnosa (ma non ben realizzata) attenzione ai dettagli testuali (quegli ‘staccati’ così enfatizzati, quasi al ridicolo), la seconda strofa fu deturpata da varianti musicalmente orribili che non aggiunsero exploits de bravoure, la cadenza taciuta per intero (come facevano i tenori d’un tempo) come per prepararsi – come facevano un tempo i tenori – a una folgore sovracuta a conclusione, che invece mancò, con scadimento d’effetto. Certo, anche in questo caso il direttore non sostenne il cantante come avrebbe dovuto, ma certo nella “caduta” dovette entrarci anche altro. Il valoroso tenore subito si riprese, anche se è rimasta l’impressione d’una recita a freno a mano tirato, fino alla romanza finale, dove per intensità espressiva unita a un canto solidissimo ed elegante insieme, Ganci ha saputo toccare le più ritratte corde emotive di tutti i presenti.

Una vera scoperta è stato il formidabile e pressoché debuttante baritono Arunbaatar Ganbaatar, un altro catapultato sulle scene nostrane dalle rimote steppe mongole: voce vera di baritono, tempra genuina d’artista (sbalorditiva in un cantante della sua estrazione la padronanza del fraseggio verdiano), cantante peritissimo, attore essenziale ma (anzi, proprio per questo) efficace, scolpì la follia del vecchio senza truculenza, per modellarne il progressivo ravvedimento col percorso d’espiazione che lui compie in vece della figlia, la quale non aveva bisogno di redenzione, perché i suoi atti erano sempre stati improntati a purezza di spirito: e in questo, la morte di Giovanna in una tomba di fiori è stata forse l’intuizione più azzeccata dalla Dante, per il tributo di vita e di colore che tributava all’eroina.

Ma il vero trionfatore della serata – generosamente accolta da un pubblico festoso, seppure io non possa non parlarne come di una ciambella preparata con ingredienti quasi tutti della necessaria qualità eppure riuscita senza buco – è restato il padre.

Bernardo Pieri

Data di pubblicazione: 27 Gennaio 2025

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