VERDI Otello Y. Eyvazov, B. Ismatullaeva, N. Alaimo, I. Savignano, R. Rados, A. Schifaudo, A. Gramigni, I. Proferisce; Orchestra, Coro e Coro di voci bianche del Teatro Massimo, direttore Jader Bignamini regia Mario Martone scene Margherita Palli costumi Ortensia De Francesco
Palermo, Teatro Massimo, 26 gennaio 2025
Alla prima questo spettacolo di Mario Martone, che in verità era nato a Napoli nel dicembre 2021 (ancora, quindi, in epoca Covid), non è stato accolto benissimo: le contestazioni sono svanite alla seconda recita palermitana, quella cui ho assistito, che ha fatto registrare un franco successo per tutti gli artisti coinvolti. Martone, come spiega egli stesso nel libretto di sala (ma lo spettacolo si “legge” benissimo anche senza ricorrere a spiegazioni, per fortuna), ambienta la vicenda in epoca contemporanea in uno dei tanti paesi mediorientali insanguinati dalle guerre, in cui le truppe occidentali sono posizionate per garantire (almeno in teoria…) la pace. Non serve forzare nulla della drammaturgia originaria, che si adatta come un guanto a questa idea di Martone: l’arrivo degli ambasciatori nel terzo atto diventa, ovviamente, la visita di membri governativi in giacca e cravatta (gli stessi che poi faranno una severa reprimenda a Otello all’inizio del quarto atto: piccola licenza narrativa…), e anche le scene più decorative dell’opera, come il “Fuoco di gioia” del primo atto e la serenata dei marinai ciprioti (in origine) a Desdemona del terzo perdono quel tanto di floreale, di meravigliosa divagazione che in natura avrebbero per inserirsi invece in maniera naturalissima nella narrazione. Il primo, infatti, diventa una specie di momento di intrattenimento di conigliette e spogliarellisti per le truppe al fronte (truppe femminili e maschili, ovviamente), il secondo il momento di visita di un’organizzazione umanitaria (pare di capire, almeno) all’infermeria del campo. Qualche volta Martone calca troppo la mano sul pedale dell’ideologia, come quando, durante il “Sì pel ciel” immagina che un gruppo di donne senta la terribile decisione dei due uomini — quella, appunto, di compiere un femminicidio — e svenga per l’orrore, ma per il resto tutto si svolge con estrema durezza e chiarezza, cura dei particolari e una recitazione lavorata fin nei minimi dettagli: quello insomma che connota un grande regista. Peccato solo che l’ampio sipario divisorio che crea, all’occasione, una bipartizione del palcoscenico, e che sale e scende spesso durante lo spettacolo, fosse così rumoroso: qualcosa certamente non ha funzionato a livello tecnico.
Questo Otello visivamente così forte, scabro e severo trovava diretta corrispondenza in buca, con la lettura di Jader Bignamini, al suo primo approccio con la partitura verdiana: fin dalla tempesta iniziale, colpiva l’intensità e l’asciuttezza del fraseggio, mai indugiante verso le preziosità di strumentazione ma anzi, anche nel “Fuoco di gioia” già citato, caratterizzato da un senso di precipitazione. Maggior rilievo, quindi, acquistavano le oasi liriche, a partire dal duetto del primo atto fino all’apertura del quarto, con un “Salice” davvero connotato da un’atmosfera luttuosa, quasi epitaffio su un delitto non ancora compiuto. E che il direttore lombardo fosse al suo primo Otello sorprende, perché il dominio del complicatissimo concertato del terzo atto, tenuto in perfetto equilibrio tra l’esigenza di fluidità drammaturgica (la parte di Jago) e la grandiosità dell’impianto melodico, era assoluto. Bignamini, poi, è musicista dalla lunga esperienza operistica, che ha saputo gestire con estrema bravura le sbandate ritmiche dell’indisposto Eyvazov e che ha modellato la propria concertazione in un rapporto dialogante e fruttuoso con la personalità dei cantanti che ha sul palcoscenico: esempio evidente è la Desdemona di Barno Ismatullaeva (che fu già interessante Butterfly a Torino e a Palermo), aliena dalla dimensione tradizionale del personaggio, di solito ritratto con tratti matronali o di fanciullesca ingenuità. Nello spettacolo di Martone, anche lei è una soldatessa: e la cantante uzbeka, dalla vocalità generosa e più a suo agio nei momenti drammatici che in quelli lirici, ha temperamento e dizione incisiva, pur fornendo un ritratto ancora un po’ generico del suo personaggio. E certo i pianissimi dell’Ave Maria non erano all’altezza dei migliori confronti. Yusif Eyvazov si è fatto annunciare indisposto, quindi il giudizio andrebbe sospeso: ma voglio comunque sottolineare che, a fronte di una povertà di sfumature probabilmente dovuta al cattivo stato di salute, ha risolto con facilità la scabrosa parte del Moro, grazie al consueto squillo brillante del registro acuto e ad un’immedesimazione davvero convinta, anche a livello visivo. Da risentire, quindi, in condizioni migliori. Ascoltare Nicola Alaimo come Jago, poi, mi ha fatto ripensare all’Otello della Fenice di un paio di mesi fa, che fu praticamente l’opposto di questo palermitano, sia per l’impostazione della regia che della concertazione: e similmente lo Jago di Luca Micheletti in laguna fu più o meno agli antipodi di questo di Alaimo in Sicilia. Ma entrambi grandissimi: laddove Micheletti lavorava per sottrazione, per allusioni, per ambiguità, Alaimo costruisce un personaggio dalla gigantesca violenza tragica, grazie ad una vocalità di fluviale generosità, gestita benissimo (dagli acuti alle mezzevoci, ma anche in un “brindisi” dove la sua ascendenza belcantistica gli consente un rispetto della scrittura verdiana di rarissima esattezza) e al servizio di una dizione di chirurgica esattezza, e di un fraseggio mai banale. Uno Jago meno “falso prete” e più scopertamente demoniaco, d’altronde perfettamente adeguato allo spettacolo di Martone: l’ovazione ricevuta alla fine non era, insomma, solo segno dell’affetto del pubblico per un figlio della città. Molto interessante e promettente Andrea Schifaudo come Roderigo, assai disordinato il Cassio di Riccardo Rados e adeguata la Emilia di Irene Savignano. Le recite proseguono, con due cast, fino al 30 gennaio.
Nicola Cattò
ph. © Rosellina Garbo