Onegin, o sia le intermittenze del cuore: Ciaikovski alla Scala

Tat’jana (Aida Garifullina) e Onegin (Alexey Markov)

CIAIKOVSKI Evgenij Onegin A. Markov, A. Garifullina, A. Kolosova, E. Hasan, J. Gertseva, D. Korchak, D. Ulyanov, Y. Abaimov; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Timur Zangiev regia Mario Martone scene Margherita Palli costumi Ursula Patzak

Sonori fischi hanno accompagnato l’uscita alla ribalta di Mario Martone e delle sue collaboratrici alla fine di questo Onegin, la prima “prima” dell’era Ortombina (ma Meyer era in sala anche ieri, nel palco reale: sarà stato invitato, ma l’etichetta vorrebbe altrimenti…) che ha avuto un esito non del tutto felice. L’impressione è che, nel riproporre il capolavoro di Ciaikovski la direzione artistica della Scala abbia compiuto scelte per automatismi: dopo i felicissimi risultati della Chovanščina del 2019, Martone è tornato a lavorare sul repertorio russo, e come “premio” per avere salvato le recite della Donna di picche dopo la partenza di Gergiev, tre anni fa, a Zangiev sia stato assegnato anche Onegin. Peccato che il giovane direttore dell’Ossezia non sembri di quelli destinati ad una carriera memorabile: la sua concertazione si svolge all’insegna della logica, del buon gusto, dell’efficienza assoluta nei rapporti col palcoscenico (la Garifullina gli deve accendere un cero), e persino di alcuni momenti davvero interessanti, come la seconda strofa dei Couplets di Triquet, avvolta in un’atmosfera quasi spettrale. Ma per il resto si fatica a ricordare un’idea degna di nota, e soprattutto si perde la capacità di modellare la frase musicale su quel mondo fatto di passioni violente e tumultuose, di melanconie esistenziali, di drammi e speranze assolute: il buon senso, insomma, non si addice ad Onegin. E di conseguenza neppure l’orchestra ha reso come al solito, pur garantendo una qualità soddisfacente: per non parlare del coro, che nel finale del primo atto, incongruamente spostato fuori scena, ha patito non poco per l’intonazione.

Onegin e Lenskij (Dmitry Korchak)

Ho accennato ad Aida Garifullina: una Tat’jana bellissima, persino troppo, ma dalla vocalità vuota in basso (è di fatto un soprano leggero) eppure stridente in acuto, senza colori nei centri. Si impegna, non c’è dubbio, e la scena della lettera la vede attenta a tutti i dettagli della partitura: ma le buone intenzioni non bastano, almeno a questo livello, e nel terz’atto è del tutto impari a rendere il passaggio del suo personaggio dalla ragazza speranzosa alla donna disillusa. Alexei Markov è un Onegin di solida vocalità, che non ha rinunciato a belle sfumature pur nel quadro di una tradizionale robustezza, mentre Dmitry Korchak, dopo Rusalka e Guillaume Tell, fa ancora centro, con una passionalità e un’intensità davvero inedite, pur nel quadro di una vocalità di raffinatissima derivazione belcantistica. La sua aria del secondo atto — una delle vette della musica di ogni tempo e luogo — gli ha guadagnato una meritatissima ovazione. Tremendo il Gremin di Dmitry Ulyanov, piacevole il Triquet di Yaroslav Abaimov mentre nei tre ruoli mediosopranili ho molto apprezzato la spigliata, intensa Ol’ga di Elmina Hasan, senza per questo dimenticare Alisa Kolosova — Larina di lusso — e Julia Gertseva, la Carmen di tante recite italiane e non, riciclatasi efficacemente come Njanja.

Il secondo atto

Ho iniziato parlando della pessima accoglienza riservata allo spettacolo di Martone: che non meritava tale violenza, pur non avendo certo firmato una delle sue migliori regie. Perché questo Onegin era molto, troppo alterno: spostato ai giorni nostri (ma io direi a una ventina d’anni fa…), era concepito, nei primi due atti, totalmente en plein air, e la distesa estiva di grano (che caratterizzava anche l’Onegin di Vick, approdato alla Scala nel 2006) in cui si incastonava la minuscola camera di Tat’jana, un cubicolo riempito in maniera quasi soffocante dai libri, era insieme suggestiva e teatralmente efficace, nella sua poesia malinconica. E il finale, spartano nell’essere ridotto a un grande fondale nero, senza alcun oggetto scenico, da cui entrano ed escono Tat’jana (similmente in velluto nero) e Onegin, come due ombre ormai prive di autonoma volontà, era l’idea di un grande regista (e pure il duello, tramutato in roulette russa, aggiungeva un tocco efficacissimo). Il quale, però, sembrava tirare troppo la corda nel secondo atto, anch’esso all’aperto ma d’inverno, che più che a Puškin sembrava rimandare alle Veglie alla fattoria presso Dikan’ka di Gogol, con il suo elemento grottesco e folkloristico: inoltre, quando la simbologia è troppo aperta e smaccata, non è mai un bene, e quel rinchiudere Tat’jana in una specie di gabbia di libri, che poi bruceranno (e la casetta sopra descritta crollerà) all’annuncio del duello tra Onegin e Lenskij, sapeva davvero troppo di forzato, di didascalico. E se il duello, tramutato in roulette russa, era un’idea da tenere a mente, complessivamente non riuscito era il terzo atto, aperto da una Polonaise a sipario chiuso e ambientato in gran parte dietro un sipario rosso che faceva intravedere la festa: se l’idea era la costruzione di geometrie teatrali quasi disumanizzate, devo dire che la soluzione non è stata all’altezza di un grande uomo di teatro come Martone. E nel complesso gli ultimi due Onegin scaligeri, quello citato del 2006 di Vick e soprattutto quello del 2009 di Tcherniakov, proposto dal Bolshoi in tournée, apparivano di ben altro livello complessivo.

Nicola Cattò

L’inizio dell’opera

Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala

Data di pubblicazione: 20 Febbraio 2025

Related Posts