Una questione di stile: Lucrezia Borgia all’Opera di Roma

Alex Esposito, Enea Scala e Lidia Fridman (foto Fabrizio Sansoni)

DONIZETTI Lucrezia Borgia L. Fridman, E. Scala, A. Esposito, D. Mack, R. Feo, A. Espinosa, A. Verna, E. Niave, R. Accurso, E. Casari, R. Cavalluzzi; Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Roberto Abbado regia Valentina Carrasco scene Carles Berga costumi Silvia Aymonino

Roma, Teatro Costanzi, 22 febbraio 2025

Non sempre l’aver accumulato nella propria scheda anagrafica un numero di decenni che ti ascrivono brevimano alla categoria dei “diversamente giovani”, è motivo di riflessioni amare assai o agrodolci almeno, a seconda del temperamento d’ognuno. Riteniamo invece che — per quanto attiene il mondo della musica qui in oggetto — debba esser causa di moderato orgoglio (ed esito di benevolenza dall’alto) aver vissuto ormai un mezzo secolo d’esperienze e di riflessioni su queste, tali da poter dire non solo il banale “io c’ero”, ma da trarre a compendio i sensi diversi delle stagioni artistiche e dei movimenti culturali che ci sono passati dinanzi. E certo poniamo nel cuore più vivo di tali esperienze l’esser stato testimone di quella che alla storia è ascritta come la Belcanto Renaissance. Beninteso non dai suoi esordi fiorentini degli anni Cinquanta, ma certo dalla fine degli anni Sessanta in avanti: come affascinato spettatore e più volte come critico di essa Renaissance, chiamato a dire e a scrivere, dal barocco francese a Meyerbeer, dal Romanticismo italiano al Verdi degli inizi. Cui prodest – chiederete – rievocare tali affari (non solo) tuoi in occasione della Lucrezia Borgia or ora tornata al Teatro dell’Opera di Roma dopo quarantacinque anni d’assenza? Diremo con molta franchezza che tal edizione della partitura donizettiana sembrava non avere alle proprie spalle non solo alcuna Belcanto Renaissance, ma neppure un’adeguata autocoscienza stilistica. Premessa di siffatta censura, che ci apprestiamo a motivare, è una domanda basilare: il belcanto rigorosamente inteso è ancora appannaggio dei nostri giorni? Un’esecuzione in tal senso “filologica” è oggi realmente possibile? Lo è certamente per l’opera barocca di Vivaldi e di Händel, di Hasse e di Scarlatti, di Lully e di Rameau. Lo è assai di meno per l’opera italiana compresa tra Rossini e il primo Verdi. Ora a tal bisogna necessitano — com’è o dovrebbe esser noto — una primadonna soprano, una primadonna contralto, un tenore contraltino e un baritenore, un basso da opera seria, un direttore a giorno d’autografi, edizioni critiche, apparati ad libitum (abbellimenti, puntature, cadenze etc.) e soprattutto latore a sua volta d’un “belcanto strumentale” fatto di attenzione alla melodia, pregi timbrici, amorevole cura delle vocalità. Il panorama appare in tali sensi assai spopolato. Dopo il ritiro di Mariella Devia, ristrettasi assai l’attività di Cecilia Bartoli, Vivica Genaux e Joyce DiDonato, invecchiati o dediti ad altro alcuni tenori, dovremmo dire che tutto oggi è sulle spalle di Jessica Pratt, della Peretyatko, della Oropesa e di poche altre, ossia di lirici d’agilità o di colorature? O di alcune eclettiche outsider come la Radvanovsky e la Rebeka? Per gli altri registri (precipui i contralti) i cartelloni dei teatri parlano da soli. E quanto ai direttori – a parte Mariotti e Frizza – non crediamo che il passaggio dei barocchisti ad un repertorio più tardo abbia prodotto esiti indiscutibili. La belcanto-renaissance si è chiusa dunque senza lasciare un’eredità fruttifera, che non sia quella racchiusa nella memoria e nella certezza che lo standard offertoci a suo tempo da due generazioni di nomi (ch’è pleonastico citare) sia l’unico lecito? Temiamo di sì.

Ora – e venendo alla Borgia romana – siamo stati anzitutto non ben impressionati della direzione d’una bacchetta, spesso di fiducia nel repertorio qui in parola, come Roberto Abbado. Che di tal donizettiano titolo ha dato una lettura diremmo poco fiduciosa nella sua validità e risolta in modi singolarmente fragorosi e affrettati, nei quali è sembrato volersi “correggere” il testo, disattenderne la maggior parte delle tante istanze liriche e proporlo con un’allure consona ad un Nabucco in Arena e non ad un capo d’opera che, con i suoi raffinati eccessi, con le sue inedite sensualità, con i suoi macabri squarci, ben avrebbe meritato di stare nel capitolo La belle dame sans merci di La carne, la morte e il diavolo di Mario Praz.

Ad Abbado va anche il torto d’aver consentito ad alcuni cantanti sfocature e cadute stilistiche a tratti implausibili (pensiamo agli eccessi veristici del duetto Lucrezia-Alfonso). Il cast in palcoscenico già di per sé ci ha lasciati alquanto dubbiosi. La russa Lidia Fridman si va oggi appropriando di quel repertorio belcantistico di cui ora s’accennava. Tuttavia, come è stato da altri rilevato anche nelle sue performances con Riccardo Muti (una nuova Tatiana Serjan?), la voce è dura, ruvida, diseguale, non sempre giunge ad articolare chiaramente e a legare i suoni in ampie e suggestive arcate di fiato. E’ una donna senz’altro intelligente, ha nozione del versante autoritario e crudele di Lucrezia, ma sembra un’Elektra o una Lulu in trasferta da Venezia a Ferrara. E già dal Prologo “Tranquillo ei posa” si è compreso che l’assenza d’ogni magia timbrica avrebbe impoverita assai una pagina fra le più incantate uscite dalla mente del Bergamasco. La gran scena finale “M’odi, ah, m’odi”, con la celebre cabaletta “Era desso il figlio mio”, ha fatto udire agilità non memorabili e un sopracuto conclusivo ch’era assai meglio evitare. La voce di Enea Scala è invece splendida: ha uno smalto lucentissimo e schiettamente italiano, una fonazione buona, un temperamento appassionato: stava a lui e/o al direttore evitare di cantar Gennaro come Cavaradossi e comunque di stemperare una linea di canto sempre stentorea con qualche mezzavoce, con un’accentazione più varia e nobile e senza certi singhiozzi alla lunga impropri. Alex Esposito ha impersonato un Alfonso d’Este certo di gran potenza, ma poco raffinato, continuamente aggressivo e anch’egli con una tendenza ad andar sopra le righe che talora ha sconfinato in altri stili e in altre epoche. Daniela Mack è stata infine un Maffio Orsini vocalmente inadeguato. Non eccelse le voci degli amici di Gennaro, ma che nei loro complicati ensembles sono stati ottimamente controllati da Abbado.

La regia di Valentina Carrasco ha suscitato pochi entusiasmi nel pubblico e in noi stessi: i giovani scapestrati, da Gennaro a Maffio, in giacca, cravatta e tutù lungo tipo Giselle? Il bambino scalzo che fa tanto psicanalista? Maschere ovunque che non consentono di distinguere i personaggi? Veli e tendaggi pacchiani a chilometri? Spesso brutto, sempre inutile. Solo il gigantesco ritratto di Lucrezia (opera del 1500-1510 di Bartolomeo Veneto) in una sola scena incuteva qualche timoroso rispetto. Eppure teatro pieno e applausi irrefrenabili. E noi in fondo grati: perché ad ogni battuta, ad ogni frase ci ritornavano in mente la stessa battuta, la stessa frase nell’edizione del maggio 1980, con la Sutherland, Visconti, la Zilio, Roni e Bonynge: evento di una tarda, ma ancor sublime Belcanto Renaissance.

Maurizio Modugno

Data di pubblicazione: 24 Febbraio 2025

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