VERDI Il corsaroFrancesco Meli, Irina Lungu, Mario Cassi, Olga Maslova, Saverio Fiore, Adriano Gramigni, Giuliano Petouchoff, Matteo Michi; Orchestra e Coro dell’Opera Carlo Felice, direttore Renato Palumbo regia Lamberto Puggelli scene Marco Capuana costumi Vera Marzot
Genova, Teatro Carlo Felice, 26 maggio 2024
Composta un poco di malavoglia, per rispettare il contratto con l’editore Lucca; quasi prova generale per opere ormai imminenti come Il trovatore e Rigoletto, di cui si colgono chiare anticipazioni; Il corsaro ha assolutamente bisogno, per alleviare le sue evidenti carenze musico-drammatiche, di una grossa “mano” da parte degli interpreti. Da questo punto di vista Francesco Meli, al debutto nella parte del protagonista, il suo contributo l’ha assolutamente dato, conferendo una fisionomia nobile, vigorosa, mossa da uno sdegno di natura puramente etica, a un carattere a cui Verdi e soprattutto Piave non hanno saputo regalare l’autentica caratura romantica che il soggetto byroniano prometteva. Il tenore genovese è apparso in forma smagliante e sembra aver superato i problemi di assetto del registro acuto che hanno condizionato alcune prove recenti, non mostrando la minima sfaldatura in una parte che sì, non supera il Si bemolle, ma la cui tessitura presenta comunque i suoi tranelli, soprattutto nel duetto con Seid del secondo atto. Il ruolo oggi si adatta perfettamente ai suoi mezzi: dotata di un’invidiabile proiezione, la voce con gli anni è cresciuta di volume e spessore, e gli consentirebbe a dire il vero di attingere meno spesso al forte e al fortissimo, accrescendo ulteriormente una generosità di sfumature comunque encomiabile; tutti o quasi siamo affascinati dal Corrado di cui ci ha lasciato memoria discografica José Carreras (tenore che Meli mi ricorda sempre un poco), ma un ascolto comparato, spartito alla mano, mostra come il tenore catalano segua meno fedelmente di Meli le indicazioni dinamiche ed espressive di Verdi in pagine come l’arioso della torre o il Duetto con Gulnara del terzo atto; ferma restando, ovviamente, l’ineguagliabile luminosità del timbro di Carreras.
La capacità di Meli di far correre la voce ha inevitabilmente presentato una pesante pietra di paragone ai suoi compagni di palcoscenico. In primo luogo al Seid di Mario Cassi, che è apparso decisamente perfettibile in termini di nitidezza di linea e di dizione, gravato da un’emissione piuttosto faticosa in un ruolo peraltro impegnativo quanto a tessitura. Ma nella Romanza e nel Duetto con Corrado anche la Medora di Irina Lungu ha un poco sofferto di una certa opacità timbrica, pur cantando con correttezza e sensibilità; occorre però aggiungere che nel terzo atto il soprano russo ha saputo volgere con intelligenza questo limite in vantaggio interpretativo, disegnando un personaggio gravato dalla malinconia, commovente nel suo approssimarsi alla fine. Chi ha meglio fronteggiato Meli in termini di compiutezza vocale e interpretativa è stata però la Gulnara di Olga Maslova: nel ruolo forse più sfaccettato dell’opera (è la favorita del pascià Seid, ma lo odia e poi l’uccide, innamorata di Corrado ma rassegnata a lasciarlo a Medora) il soprano in forza al Mariinsky ha messo in mostra una vocalità decisamente interessante, che sapeva far convivere credibilmente pastosità e freschezza giovanile, in momenti come l’esordio del Duetto con Corrado o il Terzetto, con una prima ottava quasi da Azucena nell’Allegro del Duetto con Seid; il momento più toccante della sua interpretazione è stato forse l’episodio “Già l’opra è finita” in cui Gulnara torna dal Corsaro dopo aver ucciso Seid, e risolto con un fraseggio stentato e dolente. Anche i passaggi più infuocati (abbondano i salti di ottava in una parte creata da Marianna Barbieri-Nini, la prima Lady Macbeth) venivano proposti in maniera convincente, nonostante qualche acuto un po’ gridato (come il Re bemolle del finale, non scritto e non necessario); una certa spigolosità del registro acuto è spiaciuta a dire il vero soprattutto nella Cavatina “Vola talor dal carcere”. Tra i comprimari è emerso il Selimo di Giuseppe Fiore, mentre un sicuro impatto veniva garantito dall’ottima compagine corale genovese.
Esperto del primo Verdi e ormai versato in questa ancor rara partitura, Renato Palumbo ha staccato sempre tempi “giusti”, conferendo all’opera il suo caratteristico ardore combattivo ma anche venando di inquietudine l’introduzione orchestrale della scena della torre, probabilmente la pagina migliore di tutta l’opera. L’allestimento era quello, ormai classico, di Lamberto Puggelli e Marco Capuana, una coproduzione tra il Regio di Parma (dove venne battezzato nel 2004, proprio sotto la bacchetta di Palumbo) e il Carlo Felice, che lo mise in scena l’anno successivo (dirigeva allora Bruno Bartoletti): grazie al lavoro di Pier Paolo Zani, che ha ripreso la regia, e dei più smaliziati tra gli interpreti, lo spettacolo è risultato un po’ svecchiato nella gestualità molto convenzionale che ne costituiva allora il punto debole, mentre ha mantenuto intatto il suo fascino visivo, con la suggestione costante — pur nei mutamenti necessari per le singole scene — dell’ambientazione sulla tolda di una nave, tra vele che salgono e scendono a guisa di sipario, sartiame come sbarre di prigione, e un albero maestro simbolicamente spezzato nella scena della torre: sempre d’effetto lo scontro tra corsari e turchi nel secondo atto, che s’è avvalso come vent’anni or sono dell’apporto di un maestro d’armi come Renzo Musumeci Greco.
Roberto Brusotti