VERDI Il trovatore M. Cavalletti, V. Yeo, V. Urmana, M. Berti, M. Buccino, M. Calcaterra, D. Pieri; Coro e Orchestra del Teatro Carlo Felice, direttore Andrea Battistoni regia Marina Bianchi scene e costumi Sofia Tasmagambetova, Pavel Dragunov
Genova, Teatro Carlo Felice, 24 novembre 2019
Il Trovatore era stato scelto nell’ottobre del 1991 per l’inaugurazione del nuovo Carlo Felice, finalmente riaperto dopo travagliatissime peripezie successive alla parziale distruzione durante la seconda guerra mondiale: con esiti peraltro che ricordiamo piuttosto controversi, malgrado i grandi nomi messi in campo per l’occasione (da Sandro Bolchi alla Verrett e la Kabaivanska). Da allora, nonostante la generale inclinazione del teatro (particolarmente negli ultimi anni) per i titoli del grande repertorio, il capolavoro verdiano è stato riallestito solo una volta, nel 2008; ritorna oggi nella classica funzione di spettacolo di apertura della stagione operistica 2019/2020, in un nuovo allestimento affidato per la parte visiva alla regista Marina Bianchi e agli scenografi/costumisti kazaki Sofia Tasmagambetova e Pavel Dragunov, e per la parte musicale al direttore principale del teatro genovese, Andrea Battistoni. Lo spettacolo è dedicato a Peter Maag nel centenario della nascita e al recentemente scomparso Rolando Panerai, che pochi mesi fa aveva curato a Genova la regia di Gianni Schicchi.
L’allestimento è d’impianto tradizionale: vi predominano le tinte notturne, ma ciononostante risulta vivace e animato, e soprattutto svelto, grazie all’impianto girevole che permette cambi di scena immediati. In qualche caso ottenendo effetti notevoli: come nell’atto di Castellor, quando la dimensione intima della cappella si espande repentinamente nella bellicosa agorà della «Pira», mentre Leonora si protende invano verso Manrico. L’apparato scenico è in effetti imponente: l’episodio dell’accampamento include addirittura (un po’ incongruamente) un ponte levatoio, e nelle scene di massa l’animazione è costante, pagando dazio talvolta alla patologia dell’horror vacui, assai diffusa sui palcoscenici operistici odierni; come nel caso dell’episodio iniziale, quando una controscena tra i soldati distrae palesemente questi ultimi dal racconto di Ferrando, che dovrebbe invece catalizzare la loro attenzione al punto di suggestionarli e impressionarli. La regia avrebbe potuto invece fare qualcosa di più per emancipare i cantanti dalla statica gestualità di maniera, che in qualche caso ci riporta visivamente ai bei tempi andati.
Alla situazione presente, in cui è davvero arduo trovare un quartetto di cantanti all’altezza delle richieste del Trovatore, ci ha richiamato invece la prestazione del cast vocale. Tra i protagonisti la migliore in campo è Violeta Urmana, un’Azucena tormentata, intensa e autorevole nonostante la voce, ormai un po’ usurata, manchi a volte di ampiezza al centro della tessitura: ma il bel registro di petto è consistente senza esagerazioni viriloidi, e l’effetto di «Condotta ell’era in ceppi», staccata da Battistoni senza risparmio, è degno di nota. La sudcoreana Vittoria Yeo, già vista a Genova quest’anno in Simon Boccanegra, sembra troppo impegnata dalle difficoltà della parte per esprimere veramente qualcosa, risultando spesso un po’ scolastica: più efficace risulta però nell’ultimo atto, dove sa ben trasmetterci la determinazione di Leonora.
Deludente il reparto maschile: sia Marco Berti che Massimo Cavalletti infatti dispongono di un canto troppo poco rifinito per le rispettive parti. Il Manrico di Berti (recentemente interprete a Genova di Radamès e Alvaro) non possiede invero un’autentica fisionomia: assai poco carismatico in scena, musicalmente risulta spesso meccanico nel fraseggio (vedi «Ai nostri monti»), quando non spinge perdendo il controllo della linea; manca inoltre completamente della baldanza cavalleresca per l’«Allegro» «Mal reggendo all’aspro assalto». Alla fine l’unico pregio del suo Manrico è costituito dall’appagamento viscerale offerto da alcuni acuti squillanti. Troppo ruvido vocalmente il Conte di Luna di Cavalletti, che nel «Largo» «Il balen del suo sorriso» manca di rotondità ed eleganza, pur segnalandosi per una singolare malinconia dell’espressione.
Riscattano in parte la prestazione dei Signori Uomini il Ferrando di Mariano Buccino, che si appoggia su una voce compatta e piuttosto agile, e Didier Pieri, che modella con sensibilità le frasi di Ruiz in apertura del quarto atto. Battistoni dirige con la consueta veemenza, sospesa per qualche spunto più meditativo, come l’allargando dell’interludio strumentale piano tra le strofe di «Stride la vampa». Ottima la prova dell’orchestra e notevole l’impatto del coro nei suoi tanti interventi.
Roberto Brusotti