CASTELNUOVO-TEDESCO Platero y yo narratore Ugo Dighero chitarra Christian Lavernier
Genova, Teatro Duse, 6 ottobre 2019
Creando Platero y yo per narratore e chitarra, Mario Castelnuovo-Tedesco ha offerto agli interpreti non solo uno dei suoi capolavori chitarristici, ma anche un bel rebus: le ventotto prose liriche di Juan Ramón Jiménez musicate nel 1960, infatti, formerebbero un palinsesto di circa due ore di durata, troppo lungo per un concerto, soprattutto se appartenente a un genere ibrido come il melologo. Da qui la necessità di operare una selezione, ma anche la convenienza di riordinarle, in quanto Castelnuovo ha organizzato il materiale in quattro volumi, ciascuno dotato di una sua traiettoria, forse pensando più ancora che al palcoscenico ad altrettante facciate di LP come destinazione ideale dell’opera (come del resto accenna nelle Memorie, scritte a ridosso della composizione): questo comporta però, ad esempio, che in un’eventuale proposta concertistica secondo l’ordine di pubblicazione Melancolía, che racconta la commovente visita del protagonista e dei bambini del villaggio alla tomba di Platero, arriverebbe assai presto, in settima posizione: mentre la sua collocazione «drammaturgicamente» naturale, del resto quasi sempre adottata, è ovviamente alla fine, tra La muerte (che conclude la terza serie) e l’epilogo costituito da A Platero en el cielo de Moguer,che si figura l’asinello «felice nel suo prato di rose eterne».
Ugo Dighero e Christian Lavernier da un paio di anni stanno portando in giro per l’Italia una loro versione di Platero e io, a cui è toccato l’onore e l’onere di aprire la nuova stagione del Teatro Nazionale di Genova. Adottando una soluzione che mi è sembrata molto funzionale sia dal punto di vista musicale che teatrale: i brani musicati da Castelnuovo (presentati in ampia selezione) sono alternati infatti dapprima a brevi introduzioni, di taglio non serioso ma anzi ricche di annotazioni divertenti, che illustrano caratteristiche e contesto dell’opera poetica e musicale e ne presentano l’ambientazione; più avanti nello spettacolo, i numeri con accompagnamento musicale sono intercalati ad altri poemetti di Jiménez che Castelnuovo non ha inserito nella raccolta (in tutto la Narrazione poetica del Nobel andaluso consta di centotrentotto capitoli). La soluzione ha conferito respiro ed efficacia comunicativa all’affresco autobiografico del poeta misantropo, che nel villaggio natale di Moguer si accompagna all’asino Platero, visto più come un amico e un confidente che come un semplice animale (nella bellissima Amistad Jiménez scrive: «Noi ci intendiamo bene. Io lo lascio andare a suo capriccio, e lui mi porta sempre dove voglio»), descrivendo un paesaggio umile ma incantato, animato da gente semplice e povera, dai ritmi secolari del villaggio, ma soprattutto da una natura multiforme e struggente, che Dighero ha saputo evocare col suo approccio sorridente ma percorso di improvvisi stupori, grazie a mille inflessioni che hanno reso viva e palpabile, ad esempio, la colorita voliera all’aria aperta descritta in La primavera. Il finale consueto di Platero, col trittico citato più sopra, sortisce invariabilmente un effetto di grande commozione: la scelta di proporre la toccante A Platero nel cielo di Moguer come bis, staccandola quindi da La morte e da Malinconia, ha inteso probabilmente attenuarla, per rendere la conclusione più uniforme a una narrazione sempre sui toni dell’incanto, quasi della fiaba. Dal canto suo, il chitarrista imperiese Christian Lavernier è apparso perfettamente affiatato negli umori, nei tempi e nei ritmi col narratore, risultando in scena dotato di una bella comunicativa, anche gestuale: dal punto di vista puramente musicale non è stato però impeccabile come altri interpreti che ho — discografia a parte — visto esibirsi nelle impegnative pagine di Platero, su tutti Lorenzo Micheli. Questa carenza di precisione ha un po’ spezzato la magia de La Arrulladora, poeticamente e musicalmente forse il vertice del ciclo (non per nulla Andrés Segovia la volle non solo incidere ma anche recitare, nel documentario Segovia at Los Olivos); altrove però ha saputo, grazie anche a un suono piuttosto ricco, restituire la poesia dell’unione tra musica e parola (La flor del camino).
Roberto Brusotti