BRITTEN A Midsummer Night’s Dream C. Ainslie, S. Mancasola, M. Anselmi, P. Kirk, J. Chest, H. Sharvit, K. Fuge, D. Shipley; Orchestra e Coro di voci bianche dell’Opera Carlo Felice, direttore Donato Renzetti regia Laurence Dale scene e costumi Gary McCann luci John Bishop
Genova, Teatro Carlo Felice, 15 ottobre 2023
Una delle linee di continuità più interessanti che hanno attraversato negli anni le stagioni del Carlo Felice (non sempre in passato particolarmente originali e innovative) è stata la consuetudine con l’opera di Benjamin Britten: ricordiamo tra gli altri lo spettacolo che ha conseguito nel 2000 il Premio Abbiati, l’affascinante Death in Venice messa in scena l’anno prima da Pier Luigi Pizzi, o il duplice Billy Budd, presentato sia nella versione originale nel 2005 (un allestimento viennese con la regia di Willy Decker, di cui si rammenta soprattutto lo straordinario Claggart di Samuel Ramey) sia, dieci anni più tardi, nella revisione in due atti del 1960, con la stimolante regia di Davide Livermore (dal Regio di Torino). Ottima idea quindi quella di inaugurare con Sogno di una notte di mezza estate una stagione che cerca di accontentare un po’ tutti i gusti, alternando titoli popolari come La bohème o Il barbiere di Siviglia ad altri meno consueti (almeno per Genova) come Idomeneo, Beatrice di Tenda e Il corsaro, senza farsi mancare una novità assoluta: un’opera su Édith Piaf in programmazione a dicembre, debutto operistico di Maurizio Fabrizio.
A Midsummer Night’s Dream è certo opera meno battuta di Peter Grimes (che per combinazione viene messa in scena quasi simultaneamente alla Scala) o Giro di vite, e per certi versi anomala nella produzione di Britten a causa dell’assenza (o presenza in forma più sublimata) di temi-cardine come l’innocenza tradita, la violenza, la poetica della diversità; ma a suo modo pienamente britteniana per l’ambigua atmosfera onirica (nel suo catalogo non mancano i Notturni) e per l’affascinante ricerca timbrica, nonché per l’estrosità che la caratterizza, compresa la scelta di affidare inusualmente i due personaggi che si possono considerare diversamente principali a un controtenore (nel 1960!) e a un attore-acrobata. Un’opera, mi azzardo a dire, che forse non è stata ancora compresa appieno in tutta la sua arguzia e mera bellezza, e che magari molti, dopo aver assistito a questo riuscito allestimento, avranno ricollocato all’interno della propria personale tassonomia novecentesca.
Composta in pochi mesi per l’inaugurazione della rinnovata Jubilee Hall di Aldeburgh, su un libretto (preparato dallo stesso Britten assieme a Peter Pears) che conserva scrupolosamente il verso shakespeariano ma condensa la vicenda in tre atti, tagliando quasi la metà del Play originale, l’opera alterna continuamente le distinte vicende che, con le dovute intersezioni, compongono i tre distinti piani della trama: la controversia tra Oberon, re delle Fate, e la sposa Tytania; le scaramucce amorose tra i quattro giovani ateniesi, complicate dal goffo intervento del folletto Puck; e lo scombinato affannarsi dei Rustici impegnati a preparare e infine a mettere in scena, nel terzo atto, il dramma Piramo e Tisbe in onore della coppia regnante (Theseus e Hippolyta) alla quale nell’opera di Britten non rimane che un ruolo marginale. Nel nuovo allestimento genovese (in collaborazione con l’Opera di Muscat) questi piani e la relativa differente connotazione di sovrumano, umano e… troppo umano, perfettamente focalizzata dalla musica, sono ben evidenziati dai meravigliosi costumi di Gary McCann, tra cui spiccano i fantasmagorici abiti neri di Oberon e Tytania, che sembrano riecheggiare la mozartiana Regina della Notte, contrastando nettamente col candore che caratterizza invece i giovani ateniesi e con i tessuti di lana utilizzati per i rustici. L’essenziale ambientazione scenica mette in primo piano gli alberi della foresta, che Britten del resto incarna in un vero motivo orchestrale con i glissando che imperversa nel primo atto; le variazioni di atmosfera vengono affidate quasi completamente alle affascinanti luci e proiezioni video, e la regia di Laurence Dale (che alcuni ricorderanno come tenore, ma è oggi regista, direttore d’orchestra e direttore artistico) è finalmente una vera regia, capace di gestire i cantanti-attori con movimenti intelligenti e appropriati. In sintesi: uno degli spettacoli più belli e poetici visti a Genova negli ultimi anni.
Britten non è certo il primo autore che viene naturale accostare al nome di Donato Renzetti: tuttavia il Direttore emerito del Carlo Felice ha saputo offrire una visione molto personale, efficacissima dell’opera, ritmicamente incalzante, attenta ai molteplici spunti melodici che il compositore inglese mette continuamente in campo (magari, volutamente, senza svilupparli del tutto), nonché ai singolarissimi impasti timbrici, restituendo poesia piena ad episodi come l’introduzione e il finale del secondo atto o il quartetto dei giovani nel terzo, innervato musicalmente dalla sostanza stessa dei sogni. Renzetti è stato assecondato dall’ottima prova dell’orchestra, a cui Britten richiede notevole impegno, in particolare alle prime parti: in primo luogo al vasto campo delle percussioni, al trombone e ovviamente alla tromba in re che costituisce un vero alter ego di Puck. Eccellente anche il Coro delle voci bianche del teatro (diretto da Gino Tanasini) nonché le quattro fate soliste, selezionate tra le sue fila; a volte per praticità si preferisce utilizzare interpreti femminili, ma la timbrica delle voci infantili in realtà è essenziale nello spettro coloristico ed espressivo pensato dal compositore del Suffolk.
Un aspetto da cui è emersa la grande esperienza a tutto campo del regista è stata l’attenta selezione del cast, che ha condotto a una realizzazione complessivamente notevole e assai convincente sia dal punto di vista musicale che da quello scenico, schierando interpreti tutti capaci — altro fattore essenziale — di far percepire con nitidezza l’iridescente verso shakespeariano. Christopher Ainslie è perfettamente a suo agio nella vocalità di Oberon (un ruolo scritto per il capostipite dei controtenori, Alfred Deller), pur non possedendo una voce grande né molto ricca di colori: ma sa offrirci una visione del personaggio originale, sovrumana sì, ma un po’ meno aliena e inquietante di quanto altre interpretazioni ci abbiano suggerito. Nonostante Dale lo voglia ancor più presente come manipolatore rispetto a quanto prescriva il libretto, addirittura durante la farsa del terzo atto, Oberon qui sembra mosso da una sincera partecipazione alle vicende degli umani, addirittura da empatia nei confronti di Helena. Ancor più convincente la Tytania di Sydney Mancasola, altera nel primo atto, ma appassionata nel secondo: voce assai gradevole, perfettamente padrona del canto di coloratura tanto da saperlo impreziosire di sfumature, e cantante espressiva già nel rammentare dolorosamente la madre del paggio nella prima scena, il che rende più credibile l’impuntatura sul fanciullo conteso che dà l’avvio a tutta la vicenda.
Matteo Anselmi ha saputo conferire a Puck la mesmerica vivacità che lo contraddistingue, ed eccellenti sono risultati tutti gli amanti ateniesi: ben proiettati vocalmente il Lysander di Peter Kirk e il Demetrius di John Chest, vellutata la prima ottava di Hagar Sharvit (Hermia), mentre Keri Fuge ha sviluppato in crescendo Helena, il personaggio più profilato e originale dei quattro. David Shipley ha una voce un po’ rude che risulta perfettamente funzionale al ruolo di Bottom; efficaci i rustici, tra cui spiccava il Flute di Seumas Begg, così come Scott Wilde (Theseus) e Kamelia Kader (Hippolyta).
Roberto Brusotti
Foto: Marcello Orselli