BELLINI Beatrice di Tenda Mattia Olivieri, Angela Meade, Carmela Remigio, Francesco Demuro, Manuel Pierattelli, Giuliano Petouchoff; Orchestra e Coro dell’Opera Carlo Felice, direttore Riccardo Minasi regia Italo Nunziata scene Emanuele Sinisi costumi Alessio Rosati
Genova, Teatro Carlo Felice, 17 marzo 2024
Non so dire se il fatto che nell’arco di pochi mesi Beatrice di Tenda sia stata rappresentata al San Carlo, seppur in forma di concerto, all’Opéra Bastille (con la regia di Peter Sellars) e ora al Carlo Felice, possa rappresentare un segno di riscossa di questa vera Cenerentola tra le opere mature di Vincenzo Bellini: già in passato ricordiamo ripetuti tentativi di riportarla in auge, legati per lo più alle Dive che hanno voluto via via calarsi nei panni dell’austera protagonista; sforzi che non sono stati in grado, però, di riposizionare stabilmente l’opera al centro del repertorio. La sua tormentata gestazione in effetti si rispecchia in una carenza di autentica presa drammatica, e anche in un’ispirazione musicale discontinua, nonostante il classico escamotage degli autoimprestiti; a suo sfavore gioca anche il fatto che alcuni episodi anticipino curiosamente situazioni del Don Carlos e del Trovatore,dove però sono sviluppate con efficacia ben maggiore. Tuttavia Beatrice può fondarsi su alcune pagine notevoli, soprattutto quelle affidate alla protagonista e i concertati, mentre dal punto di vista teatrale un punto di forza può essere costituito dal fatto che i protagonisti sono portatori di psicologie assai differenti: Beatrice, già vedova del condottiero Facino Cane, vittima del destino, ma dritta come una lama; il giovane sposo Filippo Visconti, che la ripudia e accusa per dissidi politici e perché invaghito di Agnese del Maino, capriccioso e truce; quest’ultima, amante di Filippo ma innamorata di Orombello, ambigua e vendicativa, nel secondo atto però riscattata dal rimorso; questi, alleato di Beatrice e di lei segretamente innamorato, passionale e ingenuo.
Nell’allestimento genovese (in coproduzione con la Fenice) le ragioni dell’opera vengono affidate soprattutto alle qualità di una direzione vivace e di un ottimo quartetto di interpreti. Al Carlo Felice Angela Meade, giusto due anni or sono, è stata protagonista applaudita dell’opera che per Bellini costituì un modello e una sfida, la donizettiana Anna Bolena. A Beatrice, ruolo creato da Giuditta Pasta, il soprano americano ha prestato la sua vocalità sontuosa, dotata di un cremoso registro centrale, in grado di far spiccare il volo ai cantabili (vedi ad esempio il Larghetto “Al tuo fallo ammenda festi” nel Quintetto), nonché di una corposità nei gravi che la rende capace di sostenere pienamente lo scontro con Filippo; le difetta tuttavia un autentico carisma di attrice, per cui la sua Contessa spicca soprattutto per la dolente compostezza. Nella robusta vocalità di Mattia Olivieri dell’“improvvisa indisposizione” annunciata prima dello spettacolo si è avvertito ben poco, se non un certo impegno nella respirazione; il baritono ha impersonato incisivamente un Filippo pallido nell’incarnato e perfido nell’agire, che ci ha saputo però trasmettere anche i fugaci rimorsi del Largo “Qui mi accolse oppresso, errante”. A Orombello Bellini ha invece negato l’aria che avrebbe potuto definirlo davvero come personaggio; Francesco Demuro, voce di pasta chiara, dizione eloquente, acuti squillanti, ne ha però fornito un ritratto nobile e umano, approdando felicemente alla dimensione sublime nel memorabile “Angiol di pace all’anima”. Carmela Remigio infine è stata un’Agnese vibrante nello sdegno come nel pentimento. Riccardo Minasi ha proposto una concertazione sempre viva, con Allegri incalzanti e cantabili ben modellati; buona la prova dell’orchestra genovese e ottima quella del coro, onnipresente nell’opera, dove incarna via via cortigiani, armigeri e giudici, contribuendo in maniera fondamentale alla riuscita dei concertati.
Sulle singolari scene di Emanuele Sinisi, nelle quali convivono mura diroccate, grandi foto scolorite e fughe architettoniche, Italo Nunziata ha costruito una regia tradizionale, che non disturba con astruserie ma che manca altresì del guizzo capace di supplire alle carenze drammaturgiche dell’opera; l’eleganza ottocentesca dei costumi stride un poco con la cruda vicenda tardomedievale di torture ed esecuzioni.
Nella recita domenicale a cui ho assistito, pubblico piuttosto numeroso e cordiale.
Roberto Brusotti
(Foto: Marcello Orselli)