VERDI La traviata Carolina López Moreno, Francesco Meli, Roberto Frontali, Carlotta Vichi, Chiara Polese, Roberto Covatta, Claudio Ottino, Francesco Milanese; Orchestra e Coro dell’Opera Carlo Felice, direttore Renato Palumbo regia Giorgio Gallione scene e costumi Guido Fiorato luci Luciano Novelli
Genova, Teatro Carlo Felice, 19 gennaio 2025
L’annunciato debutto genovese di Olga Peretyatko in Traviata si presentava sicuramente come uno dei principali elementi di interesse della stagione del Carlo Felice. Purtroppo il soprano russo ha dovuto rinunciare per problemi di salute, ma il teatro ha saputo rilanciare ingaggiando una delle cantanti emergenti di cui più si parla al momento: Carolina López Moreno, intervistata da Nicola Cattò sul numero di MUSICA ancora in edicola, reduce da un vero trionfo in Madama Butterfly a Firenze lo scorso autunno e segnalata dai nostri critici anche nella Bohème a Torre del Lago e nella Rondine a Torino. Fresca di debutto assoluto come Violetta (sempre al Teatro del Maggio), il soprano tedesco ha confermato a Genova le qualità di un timbro molto accattivante, di un canto sfumato, di una figura assai piacevole (anche nel blonde look qui imposto dall’allestimento). In uno dei ruoli più temibili dell’intero repertorio, tuttavia, la López Moreno ha rivelato anche una certa acerbità, apparendo spesso guardinga, troppo dipendente dalla bacchetta direttoriale, un po’ in affanno in “Sempre libera”, e armata di una dizione non abbastanza scolpita per brillare nella forma di canto di conversazione in cui di fatto Verdi nell’opera fa evolvere il recitativo, carenza evidenziata peraltro da qualche tempo un po’ frenetico staccato da Renato Palumbo (in particolare nei dialoghi con Alfredo nel primo atto e nel Finale secondo); anche le mezzevoci che costituiscono sicuramente una delle doti principali della sua vocalità (e che qui spiccavano in frasi come “Ah perché venni, incauta!”) non sono sembrate sempre perfettamente sostenute, ad esempio in un “Addio del passato” nel quale, come in generale in tutto il terzo atto, il soprano ha comunque saputo trasmettere al pubblico la sofferenza della protagonista. Una tinta personale era conferita da una certa sensualità, che non è sempre caratteristica delle interpretazioni di Violetta, ma che può essere considerata implicita nell’immanenza dei tempi ternari nell’opera; ma complessivamente l’impressione è che il soprano di origine boliviano-albanese abbia bisogno ancora di parecchio tempo per maturare un ruolo che un domani potrà regalarle, e regalare al pubblico, belle soddisfazioni.
Francesco Meli ha impersonato Alfredo per l’ennesima volta nella sua città: sin dalle prime frasi il tenore spicca sul contesto per quella proiezione vocale che rende la sua prestazione in teatro sempre superiore a quanto si apprezza ascoltando la sua voce registrata. Già la sua seconda battuta (“sì, egli è ver”: sospirando, prescrive lo spartito), poi, viene proposta in mezzavoce, e tanto basti per sintetizzare la vividezza di un ritratto attento e generoso, mai banale, privo di punti deboli se non, in qualche passaggio, quel canto un po’ stentoreo che caratterizza la vocalità del tenore genovese, forse leggermente accentuato dai ruoli ben più pesanti affrontati di recente. Con voce meno risonante ma sensibilità interpretativa ancor più fine, il veterano Roberto Frontali sa restituire un Germont severo e autoritario, come suggerisce la tendenza allo staccato all’esordio del duetto con Violetta, ma incline a sciogliersi via via in sfumature più affettuose (anche se la regia gli fa negare l’abbraccio richiesto dalla protagonista); “Di Provenza il mare, il suol” viene modellata benissimo, ma il baritono sessantasettenne riesce a dare senso anche alla Cabaletta, impresa non da poco.
Renato Palumbo ha trasferito la sua lunga esperienza verdiana in Preludi ricchi di sensibilità cantabile e dolente, ha rivelato personalità con alcune singolari accentazioni, ha reso incalzanti i tempi più rapidi, anche se come si è accennato al prezzo di mettere i cantanti in qualche difficoltà; nel terzo atto si è notata in effetti qualche fatica nel tenere assieme orchestra e palcoscenico, nonostante quella a cui ho assistito fosse già la quarta recita col medesimo cast. Ottima — come sempre — la prestazione del coro, mentre tra i comprimari hanno convinto soprattutto la sensibile Annina di Chiara Polese e il Grenvil di Francesco Milanese, autorevole per voce e per portamento: circostanza non priva di significato, dato che la regia di Giorgio Gallione richiede al Dottore una presenza quasi ossessiva nell’opera, incarnando uno dei molti simboli o presagi di morte che pervadono l’allestimento, battezzato nel 2016 (ne ho riferito su MUSICA 283) e già riproposto nel 2018. Al centro delle spoglie scene di Guido Fiorato campeggia un albero isterilito, blandamente addobbato a festa per il primo atto e abbattuto nel terzo (che spicca per un certo impatto visivo): tetro e un po’ ipercinetico, anche per l’abbondante impegno dei ballerini della compagnia DEOS, lo spettacolo ha il merito di mantenere almeno un po’ del carattere perturbante che La traviata, pur per motivi assai differenti, esercitò nel 1853 e che oggi, a forza di riproporre il Brindisi e i numeri principali nei vari concertoni, rischiamo di perdere completamente di vista; nonché di far interagire i personaggi, almeno a tratti, con una certa originalità. Personalmente mi sono dispiaciuti piuttosto gli episodi il cui senso psicologico profondo viene alterato dalla presenza in scena di personaggi che non dovrebbero esserci: come la conclusione del primo atto, dove il carattere quasi visionario delle rimuginazioni di Violetta viene guastato dalla partecipazione molto concreta di Alfredo (il cui intervento dovrebbe avvenire ovviamente fuori scena); così come la natura di riflessione e intima confessione dell’aria del tenore che apre l’atto successivo viene intaccata radicalmente dalle giocose interazioni con una Violetta assai procace.
Le cronache riferiscono che alla Prima il versante scenico è stato oggetto di alcune contestazioni; qualche scrollar di capo e qualche mormorio si è avvertito anche all’ultima recita (che, come altre, ha segnato il “tutto esaurito”), ma senza che ciò condizionasse applausi partecipi e calorosi.
Roberto Brusotti
Foto: Marcello Orselli