STRAVINSKI Le Faune et la Bergère op. 2; Scherzo fantastique op. 3; Feu d’artifice op. 4; Chant funèbre op. 5; Le Sacre du printemps mezzosoprano Sophie Koch Lucerne Festival Orchestra, direttore Riccardo Chailly
DEBUSSY Khamma KOECHLIN Les Bandar-log op. 176 HOLLIGER Concerto per violino in omaggio a Louis Soutter violino Patricia Kopatchinskaja Orchestra della Lucerne Festival Academy, direttore Heinz Holliger
MENDELSSOHN Sinfonia per archi n. 6 in MI bemolle SCHNEIDER «Dr. Jekyll & Mr. Hyde» per due violoncelli e orchestra d’archi SIBELIUS Improvviso per orchestra d’archi NIELSEN Suite per orchestra d’archi in la op. 1 violoncelli Jonas Iten e Alexander Kionke Festival Strings Lucerne, direttore Daniel Dodds
SCHUMANN Arabeske in DO op. 18; Allegro in si op. 8; Fantasia in DO op.17 CHOPIN Due notturni op. 55; Sonata n. 3 in si op. 58 pianoforte Maurizio Pollini
MONTEVERDI Orfeo K. Adam, H. Blažiková, L. Richardot, F. Boncompagni, G. Buratto, K. J. Kim, F. Zanasi; English Baroque Soloists & Monteverdi Choir, direttore Sir John Eliot Gardiner
Lucerna, Lucerne Festival, KKL Konzertsaal, 19, 20, 21 e 22 agosto 2017
Alla seconda estate alla guida della Lucerne Festival Orchestra, Riccardo Chailly mostra di tenere perfettamente tra le sue mani questo gioiello sinfonico, un’orchestra molto ben amalgamata, reattiva e precisa, motivatissima, con un suono naturalmente sontuoso e profondo. A un direttore bastano pochi gesti e poche sollecitazioni – quelle giuste, naturalmente – per portarla a dare il massimo, come è avvenuto nel terzo dei programmi diretti al KKL da Chailly, dedicato ad Igor Stravinski.
Un suono profondo ed un fraseggio fascinoso, impreziosito da un legato di gran classe, caratterizzavano già il primo dei brani in programma, i tre Lieder del ciclo Le Faune et la Bergère op. 2. In una pagina in cui raffinatezze armoniche alla Debussy si accompagnano al colorismo caratteristico di Rimski-Korsakov, che fu l’insegnante di Stravinski, l’impasto sonoro degli archi era un autentico distillato di bellezza che accompagnava con eleganza il mezzosoprano Sophie Koch, la cui voce pur denunciando a tratti qualche incertezza nell’emissione, in particolare nelle chiusure di frase, risultava nel complesso affascinante. Il percorso attraverso le prime prove compositive di Stravinski è continuato con uno Scherzo fantastique op. 3 memorabile per come Chailly ha saputo distillare i dettagli una partitura pungente e vivace, senza per altro sacrificare sull’altare della brillantezza il nitore delle linee e la qualità dell’impasto sonoro della sua orchestra. Nel successivo Feu d’artifice op. 4 la Lucerne Festival ha dato una prova di grande virtuosismo – quello vero, non il rumoroso e scomposto agitarsi sulla superficie della musica – soprattutto nella vorticosa sezione conclusiva. Se l’Op. 4 venne scritta come dono di nozze per la figlia di Rimski-Korsakov, il Chant funèbre op. 5 nacque a distanza di pochi mesi per commemorare l’amico ed insegnante scomparso nell’estate del 1908. Dopo l’esecuzione del 30 gennaio del 1909 la partitura andò perduta, per riemergere soltanto nel 2015, confusa tra altri manoscritti in una stanza del Conservatorio di San Pietroburgo. La prima esecuzione moderna è avvenuta nel dicembre 2016 al Teatro Marinskij con Valery Gergiev, mentre questa esecuzione a Lucerna è destinata a diventare la prima registrazione assoluta di un lavoro dominato da una cupa gravezza timbrica ed intriso di umori wagneriani, come rivela l’affinità, fatta salva l’assenza del ritmo puntato, con la marcia funebre per la morte di Siegfried nel Crepuscolo degli dei.
Tutto è però impallidito dopo la spettacolare interpretazione del balletto La Sacre du printemps, in programma nella seconda parte della serata, il capolavoro con il quale nel 1913 Stravinski si mette alle spalle gli anni di apprendistato ottenendo la consacrazione tra i grandi del suo tempo. Chailly ha ottenuto da un lato una grande tensione ritmica pur senza puntare sulla velocità, dall’altro una lancinante tensione drammatica senza insistere sugli aspetti più selvaggi dell’orchestrazione. La musica è una questione di equilibrio e il minuzioso lavoro sulla partitura condotto dal direttore milanese, che ha passato la partitura ai raggi X, si è rivelato il punto di partenza di un’interpretazione di rara intensità, fin dalla celebre frase iniziale del fagotto, slargata all’inverosimile. Chailly ha trovato un suono ruvido, piuttosto lontano dalla pienezza e rotondità esibita dall’Orchestra di Lucerna nella prima parte della serata (l’uno e l’altro esaltati dalla splendida acustica del KKL, che restituisce all’ascoltatore, in qualunque posizione della platea si possa trovare, una perfetta e dettagliata immagine sonora dell’orchestra, in tutta la sua profondità), ad esaltare oscure forze telluriche tradotte dal virtuosismo degli orchestrali (penso alla «Danse de la terre», al termine della prima delle due sezioni del balletto) in un meccanismo sonoro spaventoso e affascinante insieme. Nulla era scomposto, in questa lettura di Chailly, eppure tutto di brulicava di movimento, il movimento ambiguo di un antico rito di morte con il sacrificio di una giovane vergine per propiziare il ritorno della primavera. La grandezza di questa interpretazione, una delle migliori se non forse la migliore del Sacre che ci è capitato di ascoltare, è proprio nell’unire la massima precisione esecutiva alla massima tensione drammatica, la chiarezza dei dettagli alla ricerca di timbri straniati e spiazzanti, il senso del destino incombente (la «Danse sacrale» conclusiva) al rigoroso rispetto del segno della partitura. In altre parole, tutto era terribilmente veloce senza essere affrettato (anzi senza essere, in termini di metronomo, davvero veloce, se non nella «Danse sacrale»), tutto era conturbante senza essere scomposto.
Heinz Holliger ed i giovani della sua Lucerne Festival Academy, la formazione didattica fondata nel 2003 da Pierre Boulez per approfondire lo studio del repertorio novecentesco e contemporaneo, ha invece aperto una domenica di gran lusso per quanto riguarda il versante sinfonico, con appuntamenti alla mattina, al pomeriggio ed alla sera. I giovani dell’Accademia, che si rinnova ogni estate, non possono esibire il suono pastoso e la fluidità del fraseggio della compagine maggiore del Festival, però suonano con molta precisione ed anche virtuosismo, restituendo tutte le sottigliezze timbriche ed armoniche del balletto di Debussy Khamma, una pagina del 1912/13 che l’autore affidò al collega Charles Koechlin per l’orchestrazione e che per certe soluzioni armoniche è affine ai contemporanei Preludi per pianoforte. Dopo Khamma c’era un’altra rarità, Les Bandar-log op. 176 (sottotitolato «Scherzo delle scimmie») dello stesso Koechlin, pagina bizzarra, lussureggiante e grottesca, giocata sull’accostamento stridente di stili diversi, dal contrappunto di Bach alla dodecafonia, con un finale timbricamente incantato.
Il pezzo forte della matinée era però il Concerto per violino dello stesso Holliger, interpretato da una spiritata e ispirata Patricia Kopatchinskaja. La violinista moldava è salita sul palcoscenico a piedi scalzi e vestita di bianco, come se fosse un personaggio di un film di Kusturica, suonando con il diavolo in corpo. Non so se si sarebbe presentata in questo modo anche per interpretare il Concerto di Brahms o il Concerto di Beethoven, però la sua strana mise poteva andare bene per le atmosfere allucinate del lavoro di Holliger. Composto tra il 1993 ed il 1995 e rivisto nel 2002, il Concerto è dedicato al pittore e violinista svizzero Louis Soutter, costretto a trascorrere in manicomio gli ultimi 19 anni della sua vita, dal 1923 al 1942. È una partitura angosciante, una sorta di biografia in musica che partendo da atmosfere tardoromantiche approda ad linguaggio asciutto e timbricamente spoglio nell’ultimo dei quattro movimenti, ispirato al dipinto Avant le massacre. La Kopatchinskaja si è tutta immersa nel tremore allucinato di una partitura oscillante tra realtà ed incubo. Possiede una grande agilità digitale e nel colpo d’arco, senza comunque appartenere alla categoria dei virtuosi «monstre», e mette una grande tensione in ogni singola frase, in ogni singola nota. Se del resto i grandi virtuosi fanno sembrare semplici i passaggi difficili, con lei succede il contrario, nel senso che anche i passaggi più ordinari dal punto di vista tecnico appaiono perturbati, finendo per spiazzare l’ascoltatore. Il suo fraseggio è stato teso e le sonorità affilate come le lame di un rasoio per tutta l’estensione di una partitura labirintica e piena di citazioni, che arriva a quasi 50’ di durata. È una partitura con qualcosa di selvaggio e stregonesco, via sempre più allucinata timbricamente, con profusione di armonici e con tanto di arpa e vibrafono suonati con l’archetto. Mentre dal podio Holliger modellava con molta attenzione questo singolare impasto, la Kopatchinskaja si lanciava a tratti in furiose cavalcate di suoni armonici a velocità estreme senza alcun timore e senza tirarsi indietro, fino alla stagnazione timbrica della sezione conclusiva.
Si è cambiato registro con l’appuntamento del pomeriggio, il tradizionale concerto dell’ottima compagine del Festival Strings Lucerne, diretta come consuetudine dal leggio dal violinista Daniel Dodds. Un programma più breve e più leggero, con la deliziosa e acerba Sinfonia n. 6 composta da un Mendelssohn dodicenne, due pagine dei nordici Sibelius e Nielsen ed infine «Dr. Jekyll & Mr. Hyde» per due violoncelli e orchestra d’archi del contemporaneo Enjott Schneider (pagina che dovrebbe essere inquietante e che poi così inquietante non è…). Anche se ogni tanto qualche sbavatura scappa, gli archi di Daniel Dodds suonano davvero bene, con brio, eleganza e soprattutto affiatamento. Sono un quartetto allargato più che una piccola orchestra da camera, perché fanno musica proprio come un quartetto d’archi, nel modo di fraseggiare, di dialogare, di darsi a vicenda gli attacchi, nell’abbandonarsi al piacere del canto in Nielsen e Sibelius.
Infine in serata c’è stato il debutto a Lucerna della Shanghai Symphony Orchestra, guidata dal suo direttore musicale Long Yu, ma soprattutto il ritorno, ad oltre vent’anni di distanza, del violinista Maxim Vengerov, protagonista di un’emozionante interpretazione del Concerto per violino di Ciaikovski. Pur essendo un virtuoso di prim’ordine, Vengerov evita le cavalcate un po’ insensate nelle quali spesso si lanciano i giovani in questa partitura, puntando tutto sul far cantare il suo magnifico Stradivari. È parco nel vibrato, ricorre in modo limitato ai portamenti e cerca sempre un suono pieno e rotondo ed un fraseggio suadente e fascinoso. In questo modo evita la brillantezza fine a se stessa nella cadenza del primo movimento, esibisce un suono vellutato di impareggiabile bellezza nel secondo, affronta in souplesse i virtuosismi del finale, con pochissime sbavature e rendendo ogni dettaglio anche alla massima velocità.
La Shanghai Symphony Orchestra suona bene, con precisione e disciplina, ma è piuttosto ingessata nel fraseggio, sia nel Concerto di Ciaikovski sia nella Quinta sinfonia di Shostakovich. Long Yu ha diretto con attenzione un’orchestra inappuntabile dal punto di vista tecnico, soprattutto nel roboante finale della Sinfonia di Shostakovich. Erano pregevoli del resto certe sfumature timbriche, in particolare nel Largo della Quinta di Shostakovich, anche se in generale i fiati e gli ottoni tendevano a spingere troppo. Il problema è un altro: lo stile si può apprendere ed il fraseggio modellare, il suono è qualcosa di più sottile, qualcosa che appartiene per così dire al DNA di una civiltà. La Shanghai Symphony Orchestra è ancora lontana, e non potrebbe essere altrimenti, dall’avere il suono giusto per Ciaikovski e per Shostakovich, il suono pastoso e sensuale della tradizione russa e sovietica.
Nella prima parte del concerto c’era invece il poema sinfonico Hutongs of Pekin (Strade di Pechino) di Aaron Avshalomov. È sorprendente ascoltare qualcosa di simile a Un americano a Parigi di Gershwin imbevuto di melodie pentatoniche e per giunta scritto da un compositore russo. Il fatto è che Avshalomov, nato in Siberia nel 1894, era un giramondo che si recò prima negli Stati Uniti e poi visse per trent’anni in Cina, contribuendo a dare vita ad una tradizione musicale occidentale nel suo paese adottivo e questa strana pagina ne è una prova evidente.
Un altro solista d’eccezione si è esibito il giorno successivo al KKL, Maurizio Pollini, che superata la soglia dei 75 anni sta uscendo dalla categoria dei grandi interpreti per entrare in quella dei miti. Il magnetismo esercitato da Pollini sul pubblico è molto forte e questo è un paradosso, perché siamo di fronte ad un interprete abituato a sollecitare e provocare il pubblico più che ad incantarlo. Certo, contribuiscono a creare una sorta di aura intorno alla sua figura l’incedere incerto verso il pianoforte, i radi capelli bianchi, perfino la stanchezza fisica. Il vero motivo di questo magnetismo è però un altro. Pollini oggi ha perduta qualcosa sul piano della tecnica, del vigore fisico, della precisione, della spavalda forza con cui aggrediva un tempo le partiture. Però il suo pianismo non si è impoverito, piuttosto è diventato qualcosa di diverso. Ed è un qualcosa di dolorosamente inquietante. Bastava ascoltare il suo Schumann, le lancinanti implorazioni tematiche all’inizio della Fantasia op. 17, immersa in un universo timbrico tenebroso e nebuloso, perché il pedale era usato in modo perfino esagerato fino a confondere i suoni in un magma di angoscia. Anche nei due Notturni op. 55 di Chopin al canto «spianato» ed agli abbandoni lirici subentra un canto affannoso, un fraseggio scavato e infossato, un agitarsi senza requie. Pollini non è mai stato un pianista incline al lirismo da salotto, un pianista capace di abbandonarsi al puro piacere della melodia. Oggi però il suo approccio è diventato un lavoro di scavo in profondità, perfino in una pagina innocente e delicata come l’Arabeske di Schumann, rassegna e ripiegata su se stessa.
È apparso in forma Pollini questa estate a Lucerna, come non sempre gli è capitato in questi ultimi anni, attento ai particolari, abbastanza preciso, sempre concentrato. Nella Terza sonata chopiniana, però, si avvertiva dell’affanno, soprattutto nel secondo movimento. Anche il primo dei due bis chopiniani, lo Scherzo n. 3 op. 39, è stato affrontato con circospezione, soprattutto nei passaggi in doppie ottave, e lo stesso si può dire riguardo agli spostamenti laterali nel secondo movimento della Fantasia op. 17 (una nota a margine: sul fortissimo degli ultimi accordi il pubblico del Festival, che dovrebbe essere colto, applaude fragorosamente, dimenticando che i movimenti sono tre…). Se sul piano del volume di suono e dell’incisività del tocco il pianista milanese ha perso molto, l’agilità digitale è invece ancora ottima, come ha rivelato il movimento conclusivo della Sonata. Anche in questo caso, però, tutto era immerso in un clima cupo, come le battute iniziali o il celebre Largo in cui Pollini era più interessato a mettere in luce la trama del contrappunto che ad isolare e contemplare la melodia. Del resto era e resta impensabile un Pollini abbandonato alla contemplazione della melodia: perfino la Barcarolle op. 60, concessa come secondo bis, procedeva nervosa, a tratti anche ruvida.
Per questo motivo l’interpretazione della Fantasia schumanniana è stata un capolavoro di introspezione, perché sono emerse tutte le oscure inquietudini che in Schumann si annidano anche nei momenti più appassionati. Ed ha lasciato senza fiato il lungo movimento conclusivo, con il suo inizio cupo, dalla cui stagnazione timbrica a stento emergeva il tema principale.
Di grande rilievo è stato quest’anno il progetto di eseguire in forma semiscenica le tre opere rimaste di Claudio Monteverdi, nel 450° anniversario della nascita, L’Orfeo, L’incoronazione di Poppea e Il ritorno di Ulisse in patria, tutte con Sir John Eliot Gardiner e i suoi complessi. E di grande rilievo è stata l’interpretazione dell’Orfeo, due ore di emozioni pure distillate con sapienza, perizia tecnica e soprattutto la capacità di cogliere ogni finezza di una scrittura espressiva al sommo grado. Tutti i protagonisti di questa rappresentazione (efficace anche la regia, per necessità minimalista, di Elsa Rooke) sono cresciuti affinando a lungo la pratica esecutiva barocca e gli esiti si sono apprezzati. Erano la freschezza del suono, la naturalezza del fraseggio, l’infinito riverbero di sfumature a contraddistinguere l’approccio di Gardiner, il quale pur non rinunciando ai suoi proverbiali tempi veloci ha mostrato di saper scavare in tutti i recessi di una partitura miliare nella storia della musica. Il KKL era immerso in uno splendore sonoro che è iniziato subito con la celeberrima ouverture ed è terminato solo con l’ultima nota della moresca, tra le mani di Gardiner davvero sfrenata. Del resto l’acustica della sala esaltava una partitura esuberante per la ricchezza delle soluzioni timbriche, anche se le voci a volte erano un po’ oscurate quando i cantanti non si trovavano sul proscenio, visto che in assenza di buca l’orchestra era di necessità disposta sul palcoscenico. Ammirevoli le prove di tutti i componenti del cast vocale, a partire dalla messaggera del mezzosoprano Lucie Richardot fino all’Apollo di lusso del baritono Furio Zanasi. Impressionante era la potenza di suono ed il colore brunito del basso Gianluca Buratto nel doppio ruolo di Caronte/Plutone, commuovente la delicata Proserpina del soprano Francesca Boncompagni, seducente nelle sue finezze sentimentali l’Euridice del soprano Hana Blažiková, ma su tutti si è distinto l’autorevole Orfeo del tenore Krystian Adam, capace di tenere altissima la tensione emotiva per l’intera la durata della rappresentazione con una voce sicura e intonata: il suo fraseggio era intessuto di infinite sfumature nel «dire», prima ancora che «cantare», le parole, culminanti in un lamento che andrebbe incorniciato dalla prima all’ultima nota.
Luca Segalla
(Crediti fotografici: Priska Ketterer/ Lucerne Festival; Stefan Deuber; Patrick Huerlimann)