A Ravenna un “Giulio Cesare” che perde i pezzi

(Foto: Zani-Casadio)

HÄNDEL Giulio Cesare in Egitto R. Pe, M. Lys, F. Mineccia, D. Galou, F. Fiorio, D. Giangregorio, A. Gavagnin, C.A Daliotti; Accademia Bizantina, direttore Ottavio Dantone regista Chiara Muti scene Alessandro Camera costumi Tommaso Lagattolla luci Vincent Longuemare

Ravenna, Teatro Alighieri, 15 gennaio 2025

Opere di Händel ce ne sono una quarantina, quasi tutte tramandate e rappresentabili. Tra esse, Giulio Cesare in Egitto è capolavoro tra i capolavori e volontario opus maximum anche per l’abnorme mole: consta di oltre quaranta brani tonalmente chiusi, per quattro ore reali di musica e con i comprimari che s’iniziano a contare solo dal sesto personaggio; consta di un organico esteso da archi e basso continuo a traversiere, coppie di flauti, oboi e fagotti, ben quattro corni, tromba nonché un’enclave – ci si tornerà – di strumenti all’antica; consta di un vecchio libretto alla veneziana, infine, traboccante di peripezie equilibrate tra dramma storico e commedia brillante, in stretto rapporto vicendevole di causa ed effetto (guai, dunque, a manometterlo: si patirebbe uno scotto a catena). Non è il medico a ordinare di farsene carico: chi va a scomodare un tale libretto e una tale partitura sa – auspicabilmente sa – a cosa si sta buttando incontro. È il caso di una cordata italiana di teatri di tradizione: capofila è l’Alighieri di Ravenna, in coproduzione col Comunale di Modena, il Municipale di Piacenza e quello di Reggio nell’Emilia, il Giglio di Lucca e la Fondazione Haydn di Bolzano e Trento; le dodici recite sono iniziate il 17 febbraio e termineranno il 23 marzo. Chi vorrà dunque dissentire dal poco affabile recensore, s’infili in tasca un argomento utile a chiudergli il becco: si fa qui riferimento non a una recita ufficiale bensì alla prova generale del 15 febbraio (tuttavia in buon odore di definitività).

In questa produzione, eccellente è in particolare il concorso orchestrale di Accademia Bizantina, per multicolore rigoglio timbrico e ideale punto di compromesso tra naturale morbidezza di pasta e temperamentosa incisività di fraseggio. Come ormai sempre accade, l’origine dei pasticci sta invece in un immaturo rapporto col testo, snobbandosene gli oneri. Nella concertazione di Ottavio Dantone e nella regìa di Chiara Muti, l’opera perde oltre un’ora di musica, sparpagliata in decine di tagli perlopiù interni ai brani (dunque stilisticamente e storicamente indifendibili) con conseguente dissoluzione delle sostanziali forme musicali, poetiche e teatrali (a farne le spese, per paradosso, sono anzitutto le parti meno convenzionali e dunque di più spiccato genio o lusso: sparisce – per dirne una – il minuetto, cantato in coro, che musicalmente fa ancora parte dell’ouverture e teatralmente appartiene già al dramma; sparisce – per dirne un’altra – il coro conclusivo, che conterrebbe un ultimo duetto d’amore tra i protagonisti e sarebbe pur sempre il finale dell’opera). I canonici tre atti, poi, sono arbitrariamente ridistribuiti in due parti, con meno scorrevole scarico dei pesi d’ascolto (la prima parte diviene lunga come un’intera Bohème e genererà corse disperate, salti su una zampa sola e file interminabili alla toilette). Le quattro parti maschili in registro di Soprano o di Contralto, infine, sono tutte affidate a controtenori, cedendosi così in blocco il campo a una vocalità solistica affatto ignorata da Händel pur di guadagnare alla vista la verosimiglianza di corpi virili: sarebbe tuttavia questa una priorità, nell’approcciarsi a un’opera figlia della civiltà barocca, nonché nell’attuale cultura dell’identità di genere? (Negli ultimi anni si è peraltro fatto avanti un problema meno fumosamente teorico e più impietosamente pratico: il provvidenziale imporsi di cantanti formidabili per doti naturali, tecniche e intellettive, quali Franco Fagioli e Carlo Vistoli, ha spostato assai verso l’alto l’asticella di cosa oggi si abbia il diritto di aspettarsi, da un controtenore, a proposito di timbro, accento, risonanza, estensione, omogeneità e vocalizzazione; a Ravenna, però, niente Fagioli e niente Vistoli.)

Fin qui si è detto delle responsabilità comuni tra concertazione e regìa. Quelle particolari dell’una sono la scoraggiante amputazione e lo sprovveduto scompiglio dell’organico strumentale. Non solo spariscono tre parti di corno su quattro e una di fagotto su due, insieme con i brani che li contemplerebbero, ma anche manca all’appello la tromba che caratterizzerebbe la trionfale Marche pur eseguita dell’atto III. La menzionata enclave di strumenti all’antica, poi, è quella predisposta da Händel per accompagnare, sul palcoscenico, Cleopatra-travestita-da-Lidia-travestita-da-Virtù nella celebre aria di seduzione, «V’adoro, pupille», che implica non solo il teatro nel teatro ma anche la musica nella musica: questo calcolatissimo impianto è spazzato via se gli strumenti in scena sono invece lasciati nella buca d’orchestra, e se l’arpa, la tiorba e la viola da gamba sono fatti suonare tanto lì quanto, sempre, nel resto dell’opera. Mero e sgradito arbitrio, infine, è eseguire per due volte, in scene diverse dell’atto III e nell’aggravante dei troppi tagli, la stessa sinfonia bellica, o trasferire dal violino al flautino la parte concertante nel da capo dell’aria «Se in fiorito, ameno prato». Non sono che tre esempi tra i molti offerti.

Più generale può essere il discorso sugli impedimenti che la componente registica procura a sé stessa: l’abbondanza dei tagli disperde i rinvii interni al testo anziché stringerne i significati; l’inutile inserzione del parlato e l’abuso di rumori scenici disturbano l’ascolto musicale; la stasi delle arie, considerata d’intralcio, è “risolta” con ipercinetici e scollegati sketches. Spunti, concetti e messaggi si moltiplicano, in tal modo, allontanando una visione chiara, unitaria e tantomeno doverosamente ambivalente tra il 1724 di Händel e il nostro 2025. Felice mano teatrale è quella che sa aggiungere mediante il togliere; ma quale sottile conto drammaturgico andrà tratto nel vedere in scena una Cleopatra che si atteggia geroglificamente di profilo, con braccia e mani nella posizione della zeta, o nel vedere un Tolomeo che, reinventato come omosessuale stravagante, sbuccia una banana e se l’affonda in gola?

Nella compagnia di canto si ripete, dopo quella del 2023 all’Opera di Roma, la prova – reclamizzata ma non per questo paradigmatica – di Raffaele Pe nella parte eponima: l’estensione è stiracchiata benché la gamma scritta sia in sé contenuta, l’emissione è scabra benché la corda di contralto chieda smalto a maggior ragione, il fraseggio è così povero di legato da disintegrare la linea in note dure, sciolte, non sempre intonate a dovere; per (non) tacere di un porgere ammiccante e caricaturale, tutto mossette, tic e birignao, col quale s’incassa forse la simpatia dello spettatore occasionale ma si sfiducia l’appassionante programma händeliano di affetti. Scarsa è l’intesa di coppia con la Cleopatra di Marie Lys, preparatissima sempre, ma oggi meno lucida e grintosa di quando la si ascoltò vincere il Premio Cesti, a Innsbruck, nel 2018: le gioverebbe una full immersion italiana, per acquisire idiomatismo espressivo. Con Dantone e la Bizantina, Filippo Mineccia resta l’unico riconfermato da un precedente e preferibile Giulio Cesare in Egitto emiliano-romagnolo del 2011: replica intatti gli esiti del suo Tolomeo.

Vocalmente ridotta al lumicino, Delphine Galou non è però affatto esausta nella presenza scenica, commovente, e nella fascinosa – questa volta lo è – patina fonetica francese recate in dote a Cornelia. Federico Fiorio regge ammirevolmente una tessitura sopranile: la parte di Sesto, però, avrebbe una natura non tanto idilliaca e adolescenziale, come si confà a questo delicato cantante, quanto piuttosto intrepida ed energica, tant’è vero che Händel la concepì per Margherita Durastanti (già specialista di parti virili) e la ridestinò poi sempre e solo a baritenori tra i più esuberanti dell’epoca (Francesco Borosini, Annibale Pio Fabri e Giovanni Battista Pinacci). In coda a tutto il discorso c’è quell’involontario guastafeste di Davide Giangregorio, baritono che con la sua natura generosa, la sua estensione facile, la sua vocalizzazione scorrevole, la sua comunicativa nitida, la sua tecnica solida e il suo stile indiscutibile dà luogo a un Achilla il quale è anche una scomoda cartina al tornasole per i colleghi senza carte in regola.

Francesco Lora

Data di pubblicazione: 21 Gennaio 2025

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