A Reggio Emilia una maratona pianistica beethoveniana

BEETHOVEN Concerto per pianoforte n. 2 in Si bem. op. 19 pianoforte Ludovica Franco Concerto per pianoforte n. 3 in do op. 37 pianoforte Luigi Tanganelli Concerto per pianoforte n. 4 in sol op. 58 pianoforte Gianluca Luisi Concerto per pianoforte n. 5 in Mi bem. pianoforte Marcello Mazzoni Quintetto d’archi dell’FPI Ensemble

Reggio Emilia, Chiostri di San Pietro (Festival dei Pianisti Italiani), 16 luglio 2024

Un tempo le chiamavano maratone strombazzandole quali eventi, a tutte maiuscole. Senza pompa, quasi fosse una serata di musica come le altre, il Festival dei Pianisti Italiani di Reggio ha proposto – in serata unica – quattro Concerti per pianoforte di Beethoven su cinque (mancava il Primo/Secondo, l’opus 15 per intenderci), con quattro bravi pianisti a inverare nei capolavori che sono le note del Grande di Bonn. E, insieme, a mostrare in presa diretta quanto diverse possano essere le vie d’avvicinamento al genio, le angolazioni di lettura, insomma le interpretazioni di musiche d’uno stesso compositore. Non è solo questione di distinguere con l’analisi e la messa in suono le evoluzioni o – in qualche caso – le metamorfosi dello stile (dalle conferme “mozartiane” dell’ancora giovanile opus 19, ad una classicità più articolata nelle espressioni e nelle strutture del Terzo Concerto, alle tracimazioni formali con involi nel fantastico dell’inclassificabile Quarto, al Romanticismo non soltanto eroico del Quinto, volgendosi l’opera affettuosamente verso le solide classiche forme, mentre già inclina, in qualche sfumatura, alle serenità domestiche della Hausmusik.

Che è stata la seconda protagonista della serata, posto che i Concerti sono stati eseguiti – secondo una ben consolidata prassi ottocentesca, quando la musica era vissuta come piacere vivo, da praticarsi oltre che da ascoltarsi (come oggi si va la domenica allo stadio a veder giocare i grandi club di Serie A e durante la settimana si scende al campino sotto casa a tirar calci a un pallone scalcagnato da imbucare tra due stracci buttati in terra a far da palo) – con il solo quintetto d’archi a parti reali per sostegno. E per questi cinque ammirevoli sonatori dell’FPI Ensemble la maratona c’è stata davvero e massacrante. In specie per il primo violino, Silvia Mazzon, che si è con coraggio, abnegazione e straordinaria bravura, fatta carico del traino complessivo del gruppo: traino – non paia paradosso – tanto più faticoso quanto più è ridotto il carico da portare. Sempre “scoperta”, sempre un passo avanti (come un musicista straordinario che mi fu maestro di direzione d’orchestra m’insegnava dovesse essere il Kapellmeister), la violinista si è battuta con la foga, il coraggio idealistico del più romantico dei Lord Byron con l’archetto, per far sì che la sparuta pattuglia facesse le faville d’un reggimento: o, più musicalmente, desse il sostegno armonico e sonoro d’una intera filarmonica.

Fu dunque anche merito dei valorosi esecutori se i Concerti non patirono deminutio: dell’opus 59 Beethoven stesso aveva rivisto ed approvato una versione da camera approntata da Franz Alexander Pösinger, che funziona benissimo; l’opus 19 quasi non pareva mancante in nulla, per l’essenzialità della sua strumentazione originale; ma il Terzo e il Quinto Concerto, più ricchi di combinazioni strumentali, fu più complicato tenerli in tensione: il successo finale – stuzzicato anche dagli estri esibiti di Gianluca Luisi che ha danzato sui tasti dell’estrosissimo Quarto – è stato la cartina di tornasole della riuscita impresa.

Retrocedendo nell’ordine d’esecuzione, il Secondo/Primo Concerto fu dipanato con eccellente musicalità e ammirevole sicurezza (indice di una già formata personalità di interprete) dalla debuttante Ludovica Franco, il nitore della quale faceva più pensare alla chiarezza del pensiero che alla pulizia scolastica dell’esecuzione, tanto che il suono ancora “piccolo” della giovane musicista fu volto – da possibile limite – a caratteristica propria di un’interprete che non scade mai nei languori e mai sbatte contro gli spigoli della forma in quanto tale.

Il Quinto risuonò sotto le dita di Marcello Mazzoni, con quella sua particolare disposizione al canto melodico e quasi vocalistico per la rotondità dei suoni cavati dal tocco esperto del pianista, in questa occasione apparso particolarmente concentrato sui rapporti tra canto e forma – che son un poco la sfida che si pone a chiunque affronti l’Imperatore beethoveniano –, che egli bilanciò col touche de finesse di una sbrigliata fantasia, con la quale disegnò un’opera diversa (come diverse sarebbero state – per rendere l’idea –, la Sonata per due pianoforti e percussioni di Bartók e il Concerto che lo stesso Béla ne trasse), piuttosto che recitare una lectio minor di un capolavoro ben noto: un Quinto tra i belli che ricordiamo.

Ad aprire la serata era stato il Terzo Concerto, presentato da Luigi Tanganelli in modo che la forma classica di quell’opera innalzasse la fiaccola “greca” della sua perfezione: una fiaccola cha a tratti avremmo desiderato veder brillare di una luce più viva, ma la cui fiamma mai vacillò (e non perché alla torrida serata mancava il vento).

Bernardo Pieri

Data di pubblicazione: 21 Luglio 2024

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