DEBUSSY Pelléas et Mélisande P. Petibon, B. Richter, T. Christoyannis, N. Testé, Y. Naef, O. Michael; Budapest Festival Orchestra, direttore Iván Fischer regia Iván Fischer e Marco Gandini scene Andrea Tocchio costumi Anna Biagiotti luci Tamás Bányai
Spoleto, Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti, 24 giugno 2023
Il Pelléas et Mélisande (1902) è opera più unica che rara non solo nella produzione lirica di Debussy, ma anche nella intera storia della musica. Amata e vituperata come poche altre, capace di dividere la critica in acerrimi detrattori da una parte e ferventi estimatori dall’altra tra cui Ravel e gli Apaches, segnò una via nuova ma non più seguita dal teatro musicale, lontano dalla tradizione borghese del drame lyrique alla Gounod, quanto dal pericoloso magnetismo mitopoietico wagneriano (per non dire, visto il soggetto, da un dramma verista). Niente di più lontano dallo spirito di Debussy che vi lavorò per ben quasi dieci anni con l’intento di corrispondere con la musica allo spirito del dramma simbolista di Maurice Maeterlinck.
Un’opera sui generis che non si ritrae dinanzi all’uso di temi ricorrenti (più presenti nell’orchestra, però, che nelle voci e molto frammentari) e che riesce nel ritratto di una storia senza tempo e senza luogo, impalpabile ed indefinibile in un tentativo di perfetto connubio tra testo e musica. Dunque, quasi una “non opera” o un anti-melodramma, visto la rinuncia ad una cantabilità spiegata a tutto favore di un declamato lirico affidato a personaggi esangui, che si muovono in un’atmosfera enigmatica e opalescente. Il desiderio, per dirla con Debussy, era quello di “personaggi che non discutono, ma subiscono la vita e il destino”. Ben lungi, dunque, da Tristan und Isolde, prototipo dell’amore romantico nella sua fusione di eros e thanatos.
A quest’opera non certo popolare, ma significativa all’alba del Novecento, tanto che qualcuno la vuole anticipatrice del rivoluzionario Wozzeck di Berg, era affidata la serata inaugurale del primo weekend spoletino (dopo la mancata inaugurazione di rito, causa pioggia, in piazza del Duomo con l’orchestra ceciliana in un programma boemo diretto dal ceco Jakub Hrůša). Si trattava dunque di un impegnativo e atteso ritorno ad un grande titolo lirico affidato questa volta all’esperienza del magiaro Iván Fischer ed alla sua rodata Budapest Festival Orchestra, da qualche anno in residenza al Festival dei due mondi.
Protagonista è l’amore innocente ed irrefrenabile tra Pelléas e la ingenua Mélisande, spiata dal sospettoso marito Golaud, fratellastro di Pélleas, in una ambientazione cupamente gotica e vagamente medioevale.
L’allestimento spoletino merita rispetto anche perché conserva il sapore delle cose antiche. Tale ci sembra ad esempio il fatto che a firmare la regia, sia pure in collaborazione con Marco Gandini, sia lo stesso direttore d’orchestra, uno che insomma è capace di entrare a maraviglia nelle pieghe di un’opera opalescente e diafana come il Pelléas, densa di simboli e misteri inesplicabili. Prendendo forse a presto la primigenia idea wagneriana di Bayreuth in cui l’orchestra non è mai a vista, Fischer opta per mimetizzare l’orchestra ungherese sul palco dietro selve di rovi, siepi e vegetazione e gli stessi professori d’orchestra indossano tuniche color marrone o verdone in perfetta sintonia con una foresta magica che sembra emettere suoni e incantesimi. Così facendo, però, restringe di molto lo spazio scenico, relegando ai cantanti solo un piccolo corridoio alla ribalta e dei saliscendi sul fondale che portano di volta in volta in vista i diversi episodi.
I tradizionali costui di Anna Biagiotti giocano sulla identità cromatica dei due inconsapevoli amanti (il candido bianco), ma anche sul desiderio di non spiazzare il pubblico con stravaganti trovate.
Tutto è giocato così piuttosto sulla evidenza della musica colta nella sua frammentarietà e indeterminatezza e nella sua valenza fortemente simbolica (l’acqua, le pecore che vanno al macello, la foresta, la perdita dell’anello e via discorrendo). I personaggi sembrano quasi fuoriuscire dal groviglio di rami e cespugli, come quegli animali antropomorfi tanto cari a Maeterlinck (che alle api, alle termiti e alle formiche dedicò opere illuminanti).
Nell’aria di fatalità che sovrasta sembra respirarsi, come nei racconti del prediletto Edgar Allan Poe, un alito di morte annunciata che vede protagonista inconsapevole la diafana e esangue Mélisande di Patricia Petibon, parente prossima di Ligeia o Morella, trasognata e immateriale come una pittura preraffaellita. Un rigenerante spirito di innocenza sembra inondare anche il Pelléas di Bernard Richter, tenero e trepido testimone di un sentimento al suo nascere. Più sfaccettato tra la gelosia e il rimorso il Golaud di Tassis Christoyannis, in una altalena emotiva abissale. La recitazione si muove quasi in una dimensione extratemporale, metafisica, surreale avvalorando la sostanza traslucida della partitura, diretta sempre con attenzione e apprezzabili risultati. Una intercapedine di teatro impossibile tra realtà e incubo, mai più frequentata nella storia della musica.
Lorenzo Tozzi
Foto: Andrea Veroni