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DONIZETTI L’elisir d’amore G. Mazzola, L. Avetisyan, D. Giulianini, W. Hernandez, J. Duerr, Coro Lirico Veneto, Orchestra Regionale Filarmonia Veneta, direttore Tiziano Severini, regia Bepi Morassi, scene e costumi Gianmaurizio Fercioni
Treviso, Teatro Comunale Mario Del Monaco, 14 febbraio 2025
La scelta di rappresentare L’elisir d’amore di Donizetti (autentico capolavoro di freschezza teatrale del nostro Romanticismo) nella giornata di San Valentino non poteva non risultare particolarmente calzante nell’ambito della stagione operistica del Teatro Comunale trevigiano, giunta al suo terzo ed ultimo appuntamento, anche in questo caso con il tutto esaurito. E bisogna ammettere che l’esito artistico complessivo è stato pienamente all’altezza delle aspettative, grazie soprattutto ad una regia assai movimentata e ad una compagnia di canto molto compatta e funzionale, costituita da interpreti giovani, tutti assai agguerriti, efficaci anche come attori, al punto da suscitare vere e proprie ovazioni alla fine dello spettacolo, oltre ai numerosi applausi al termine di ogni singolo intervento.
Particolarmente convincente, tra tutti, è stata la prova del soprano Giulia Mazzola, nelle vesti di Adina: oltre ad essere dotata di una voce morbida e ben timbrata, utilizzata con sensibilità e sicurezza nei passaggi belcantistici più ardui (sfolgoranti, ad esempio, i suoi acuti e molto chiare le sue colorature), l’interprete ha dato prova di una presenza scenica del tutto credibile per immediatezza e vivacità, tratteggiando del suo volubile, ma sincero, personaggio un profilo a tutto tondo, non privo di passionalità autentica. Non meno interessante l’ingenuo Nemorino di Liparit Avetisyan, un tenore di origine armena sostanzialmente duttile, dotato di un timbro vocale limpido e di uno squillo generoso (molto efficace, ad esempio, la sua celebre aria del secondo atto, Una furtiva lacrima), oltre a dar prova di una chiara dizione e di una adeguata versatilità. Assolutamente memorabile il Dulcamara del basso Daniel Giulianini, sia per la sua incontenibile vitalità ed esuberanza, sia per uno spessore vocale di non comune potenza e flessibilità: il suo è risultato un imbroglione spontaneo, simpatico e non poco convincente fin dalle sue prime battute, grazie ad una comicità davvero irresistibile e spontanea. Interessante anche il baritono William Hernandez, il cui Belcore è stato tratteggiato in modo giustamente energico, spavaldo e sicuro di sé, offrendo tra l’altro una voce brunita, omogenea e pastosa, sempre molto gradevole. Meritevole di un plauso incondizionato è stato anche il coro dei popolani, sempre puntuale, coeso, animatissimo, capace fin dall’inizio di vivacizzare le numerose scene d’insieme (in parallelo con i numerosi figuranti).
Nel complesso tale esito è stato reso possibile dalla regia di Bepi Morassi, grazie alla quale l’intero spettacolo è risultato assai godibile e non privo di efficaci soprese (come quella di introdurre in platea alcuni personaggi e figuranti). Sul versante scenografico, interessante è parsa l’idea di utilizzare i fondali dipinti della prima rappresentazione del 1832, «però decontestualizzandoli e togliendoli dal loro originario compito descrittivo», allo scopo di proporre «un doppio binario di narrazione, una sorta di cartolina “animata” che lascia, anzi invita, alla più approfondita percezione». L’unico neo della serata è stata la prova non ottimale dell’orchestra, che, soprattutto nel secondo atto, è parsa qua e là un po’ sfocata e ritmicamente altalenante (in alcuni casi con rallentamenti e accelerazioni che non combaciavano puntualmente con gli interventi dei cantanti). In ogni caso ciò non ha compromesso la riuscita complessiva di uno spettacolo assai divertente e coinvolgente, come, del resto, hanno dimostrato le ovazioni finali del pubblico, rivolte soprattutto ai cantanti, al coro e al regista.
Claudio Bolzan