
WAGNER Der fliegende Holländer J. Rutherford, C. Hilley, E. Batoukova-Kerl, A. Dohmen, A. Schifaudo, S. Anastasia; Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste, direttore Enrico Calesso regia Henning Brockhaus scene Henning Brockhaus/Giancarlo Colis costumi Giancarlo Colis videomaker Luca Scarzella coreografie Valentina EscobarTrieste, Teatro Verdi, 21 marzo 2025
Sostiene Brockhaus che l’errante Olandese di Wagner altro non è che la proiezione mitico-onirica della sovreccitata mente di Senta. Pressappoco un transfert come per l’istitutrice del Giro di vite di Henry James e Britten. Ipotesi – questa indicata dal regista come chiave di lettura della messinscena – condivisibile, tant’è che il nucleo radiante dell’Holländer arde nella ballata del secondo atto, che investe e dà forma all’opera. Condivisibile l’idea, e pure risaputa. Lo si sapeva da almeno tre quarti di secolo; almeno – a mia memoria – da quel Vascello fantasma (allora lo si titolava così quando se ne faceva – si direbbe oggi – orrendo scempio, cantandolo in italiano) visto al Verdi nel ’54 con la magnifica floridezza vocale di Gigliola Frazzoni ammaliata da un tenebroso tosco di gran belle speranze (Rolando Panerai). Quando la figura del regista ancora non esisteva e bastava il mestiere di un bravo direttore di scena a creare l’incantesimo antico della tela dipinta, a fare emergere in un lampo – non essendoci allora nulla di cinetico se non il frenetico, invisibile mulinar di braccia dei macchinisti – il maestoso vascello nere dalle vele sanguigne. Preistoria della messinscena ancora lontana dalle conquiste del progresso. Ma che Der fliegende Holländer fosse da intendersi come una grande ballata (anche se allora la si rappresentava con un intervallo anziché, come oggi, senza soluzione di continuità) lo si sapeva: una ballata come sarebbero potute diventare, se dilatate nella dismisura drammaturgica, quelle di Carl Loewe o microcosmi schubertiani come Erlkӧnig o Der Zwerg. Legittimo dunque il punto di partenza, non fosse che lo spettacolo attiva un congegno complesso e complicato che si agglomera su sé stesso in uno sfrenato visionario e in cui l’opera delle grandi solitudini, della voluttà dell’annientamento, della redenzione dell’abisso finisce per trasformarsi in una sorta di allucinata opéra-ballet. Tale, tanta e continua è la presenza – anticipata purtroppo con fastidiosa insistenza già durante l’ouverture – di una folla di figuranti in un profluvio di veli a simulare gli increspati flutti del fiordo, ad evocare muliebri simbologie alla Cyd Charisse ma il più delle volte in una esagitata, volteggiante vaghezza da discoteca sulla materica farragine scenica ideata da Giancarlo Colis e dallo stesso Brockhaus.
Stupisce in un maestro della messinscena operistica questo congestionato “troppo”, questa incontinenza coreutica, alla quale per altro restano estranei i protagonisti lasciati a sostenere, pressoché statici, le fatiche della vocalità wagneriana. Ne risente persino l’eccellente lavoro video realizzato da Luca Scarzella, che è l’aspetto più convincente e funzionale dell’allestimento. Ne risente in particolare proprio quel secondo atto in cui quasi si stenta ad avvertire di primo acchito la presenza magnetica di Senta e attraverso di lei, dell’ospite misterioso atteso e presagito. Il tepore alacre dell’interno rustico è infatti invaso da una congrega eterogenea, vorticante e variopinta come nell’ultimo Kubrick di “Eyes wide Shut”. Occorre attendere l’epilogo per ritrovare nella messinscena una parvenza di quello Stupore, ancora protoromantico, che Wagner esalta: il conflitto forte di realtà e soprannaturale nella contrapposizione del doppio coro; dove la danza, qui sì (a percuotere la terra con i piedi pesanti dei contadini o della gente di mare) diventa strumento di esorcismo. Ma questo merito, il merito dello Stupore che agita il destino dell’Errante ed i sogni di Senta, è tutto dalla parte della musica e dell’esecuzione, egregiamente governata da Enrico Calesso. Nel quale si ammira sia la coerenza strutturale assicurata alla partitura, sia l’appassionata acribia esercitata nella concertazione, nella ricchezza del fraseggio, negli equilibri di palcoscenico e orchestra: un’orchestra sempre generosa nell’ampiezza e nella qualità del particolare. È proprio questa sensibilità che fa affiorare improvvise emozioni, di quelle che nessuna alterazione scenica riesce a turbare: come la delicatissima commozione sospesa sul cantabile della ballata di Senta intonato dal coro femminile, archetipo di una tradizione popolata da Margherite all’arcolaio.

Al felice esito musicale di questo Olandese tutto il coro del Comunale triestino (ottimamente preparato da Paolo Longo e debitamente rinforzato da una dozzina di elementi di provata esperienza bayreuthiana) fornisce contributo decisivo, non meno di quello offerto dalla compagnia di canto di assoluto prim’ordine. Anche in questo caso gran parte del merito va a Calesso; per esempio nello spessore inedito di Erik, il tenore Clay Hiley. Non che fosse sconosciuto il suo potenziale vocale, il fatto è che qui squillo e accento risultano impregnati di un’angoscia dolente e profonda come non sempre si ritrova nel personaggio. L’Olandese, che approda sfinito aggrappato alla chiglia del suo Nautilus, ha la voce del baritono britannico James Rutherford, la tinta fosca, notturna e l’arcata larga più congeniali al protagonista. In Elena Batoukova-Kerl si potrebbe forse ulteriormente levigare l’omogeneità dello smalto, ma il volume, la fiammeggiante potenza dell’ottava superiore sono impressionanti nel tradurre il delirio, la nevrosi ed i pallori improvvisi ed estenuati di Senta. Albert Dohmen – il più italiano dei baritoni tedeschi – è al suo terzo Olandese triestino. Nelle due precedenti edizioni al Verdi (dove era quasi di casa) aveva incarnato il Titelrolle. Ora, passato al repertorio più grave, è un Daland imborghesito ma signorilmente prestante, scolpito sul carattere popolare e sullo sbalzo della parola. Detto della lodevole prova di Sanja Anastasia (Mary) pur nelle scomode vesti di maîtresse in libera uscita, non si possono non mettere in evidenza le qualità del tenore Andrea Schifaudo, per l’esemplare, pastoso lirismo dispiegato nel Volkslied del timoniere. Alte e vibranti, nel teatro gremito, le accoglienze al coro, all’orchestra, agli interpreti al termine della serata. Alto e sonante il buato di dissenso per i responsabili della messinscena.
Gianni Gori
Foto: Fabio Parenzan