MAHLER-SCHÖNBERG Das Lied von der Erde mezzosoprano Laura Polverelli tenore Joseph Dahdah violino Paolo Ghidoni pianoforte Fabrizio Malaman Ensemble degli allievi dei Conservatori di Vicenza e Mantova, direttore Marco Tezza
Vicenza, Teatro Olimpico, 7 settembre 2024
L’idea di presentare per il XII festival “Vicenza in lirica” Das Lied von der Erde di Mahler nella versione da camera di Schönberg accoglie più istanze: il concetto irrinunciabile di evoluzione, sperimentazione e ricerca; l’attualità universale dei messaggi musicali; il 150° della nascita di Schönberg; l’importanza della formazione continua, coinvolgendo per questa produzione un ensemble di allievi dei conservatori di Vicenza e Mantova coadiuvati dai docenti Paolo Ghidoni al violino (Mantova) e Fabrizio Malaman al pianoforte (Vicenza), aspetti che si coagulano nel carisma comunicativo e concertatore di Marco Tezza (docente di pianoforte al conservatorio vicentino). Direttore d’orchestra dalla carriera internazionale, Tezza è l’ideatore di questo progetto, culmine anche di un personale percorso artistico.
Das Lied von der Erde, ultima delle composizioni mahleriane insieme alla Nona sinfonia, è una partitura di estrema complessità, fuori repertorio – difficile reperirne le voci più adeguate – quasi inclassificabile per la sua articolazione, che riallaccia il fondamentale rapporto storico di Mahler col lied ma conservando una prospettiva sinfonica. Mahler stesso – che morì prima di poterla ascoltare – fu molto perplesso sulla sua esecuzione quando consegnò la partitura nelle preziose mani di Bruno Walter, che la diresse per la prima volta nel 1911, sei mesi dopo la morte dell’amico. L’autore ravvisava sia problematiche tecniche («Lei ha idea di come lo si debba dirigere? Io no!») che di reazione e accoglienza nel pubblico («È possibile sopportarlo? Dopo questo non ci si suiciderà?»).
Antitesi e complemento dell’Ottava sinfonia proiettata in aspirazioni mistiche, Das Lied von der Erde – già indirizzata verso la disgregazione strutturale della Nona sinfonia – torna appunto alla terra e all’umano, accoglie gli estremi della poetica cinese antica nelle fonti dei testi (“Il flauto cinese” di Hans Bethge) e le difficili transizioni linguistiche tra Ottocento e Novecento, segnando anch’essa l’epilogo dell’opulente “Austria felix” e incanalando le indagini sull’Io avanzate dalla nascente psicanalisi fra premonizioni espressioniste di un futuro incerto per l’umanità – il “tramonto dell’Occidente” – muovendosi persino in dolorosi percorsi autobiografici. Rimane così un’opera oscura come il motto iniziale nel primo lied: “oscura è la vita, oscura è la morte”. Si aggiunga che Mahler supera sé stesso di fatto trascendendo il lied: vi troviamo il mondo del lied, dell’opera, del recitativo e recitar cantando, delle sinfonie. L’ultimo lied (Der Abschied) è una sorta di scena lirica stilisticamente e formalmente fuori da ogni reale catalogazione. Das Lied von der Erde resta quindi unica e irripetibile, figurando benissimo da sola in programma in una sorta di monolitica solitudine cosmica, a cui non si dovrebbe aggiungere altro né prima né dopo.
Schönberg, amico di Mahler, aggiunse in seguito un ulteriore percorso, invertito, ossia abbandonando le rotte dell’opulente sinfonismo tardoromantico per volgersi all’essenzialità strumentale, trascrivendo nel 1921 il capolavoro mahleriano sinfonico per un ensemble di 13 esecutori con 23 strumenti (a cui Tezza ha aggiunto il controfagotto, ripreso dalla versione originale), lavoro in piccola parte abbandonato e completato nel 1983 da Rainer Rehn. Lo sfondo era quello della “Verein für musikalische Privataufführungen” (Società per esecuzioni musicali private) fondata da Schönberg nel 1918, cenacolo in cui erano nate anche le “riduzioni” del Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy o persino della Settima sinfonia di Bruckner ad opera di giovani compositori affiliati, con l’intento di rendere più fruibili e accessibili numerose partiture soprattutto recenti. Schönberg lavorò quindi con trasparenza a una versione fedele all’originale mahleriano, dove l’orchestra sinfonica è in effetti fluida, e in più occasioni – forse la maggior parte – si raccoglie già in dialoghi cameristici.
Si comprende quindi come non si possa non tenere conto di un contesto così articolato, vera sfida per gli interpreti. Marco Tezza ha svolto un lungo lavoro di preparazione, estremamente approfondito, legando prima di tutto il suono strumentale alle voci e al testo, e ponendoli in simbiosi in un’autentica chiave di lettura. Persegue questo solco ideale con una concertazione carismatica, assegnando allo stesso tempo a ogni linea del tessuto strumentale non solo una continua relazione con la voce, ma anche una sua caratterizzazione vocale in grado di sposare ogni respiro. Le stesse scelte dei tempi sono quindi funzionali alla pronuncia evocativa della sillaba.
Affronta le passioni sommerse elaborate da Mahler come fiumi carsici, più o meno celati nell’evoluzione delle frasi, quella dimensione profondamente umana che avvolge ogni nota: il problema è governarne le potenti energie interiori, convogliarne i flussi senza disperderli, visione che con Tezza raggiunge il coinvolgimento di tutti i musicisti in un’unità spirituale emblematica e un corpo unico con le voci. Il peso del suono condotto da Tezza, magnetico, flessibile e ombroso, sottolinea come non si possa avallarne un’idea standardizzata: il suono va vissuto. La stessa versione di Schönberg lo consente maggiormente e lo enfatizza lasciando emergere le velature espressioniste già presagite da Mahler, così come la liberazione dalla schiavitù della battuta nel dare maggiore evidenza alle frequenti irregolarità e sovrapposizioni ritmiche che riassorbono il tactus in una visione estremamente moderna quasi senza tempo, che Tezza dispiega con rigore assoluto. L’ensemble costruisce un suono che ingloba quest’idea di precarietà permanente, tra aperture luminose di morbidezze evanescenti e slanci graffianti, oscuri. Tezza coglie quindi l’unicità irripetibile di ogni respiro e dettaglio, una micro-organizzazione del suono che si fa vero psicodramma (si pensi alla potenza rappresentativa ricreata nell’intermezzo in Der Abschied), guida una progressiva intensificazione emotiva verso il finale, vissuto come sconcertante destinatario di percorsi ineluttabili, e inserisce tutta la partitura nel suo naturale percorso evolutivo verso la Nona sinfonia in una composta desolazione che esplicita le sofferte trasformazioni del primo Novecento.
L’ensemble di allievi rivela musicisti eccellenti, soprattutto ai fiati e alle percussioni fra numerosi interventi solistici, confermando come per eseguire questa musica sia indispensabile un livello tecnico elevato. Determinante la presenza di Ghidoni al violino, dal suono profondo e dalle ampie campate, in grado di cogliere ogni inquietudine di questo linguaggio.
Le due voci si intersecano con gli strumenti in un dialogo fra pari. Laura Polverelli canta da mezzosoprano rivelando una vocalità assai plastica, muovendosi tra la ricerca di colori aspri e di intime commozioni chiaroscurali. Pochi sanno trovare una così peculiare dimensione vocale per le complicate articolazioni della scrittura di questi inusuali Lieder, spesso ermetica.
Il giovane Joseph Dahdah è una rivelazione per lo slancio e la tensione che non perdono alcun dettaglio del testo, evidenzia ogni articolazione, si muove con dominio totale anche in ardue tessiture. Una voce che meriterebbe più spazio nelle stagioni. Successo caldissimo con lunghi applausi e ovazioni. Repliche il 21 settembre alle 21 al Teatro all’Antica di Sabbioneta e il 23 settembre alle 18 all’Auditorium Monteverdi di Mantova.
Mirko Schipilliti