Ce l’aveva già anticipato Luciano Ganci, interprete del ruolo di Maurizio di Sassonia, sul numero di marzo di MUSICA, e quindi non mi sono stupito del tutto nel vedere, nel quarto atto dell’Adriana Lecouvreur trasmessa ieri su Rai 5, il suo personaggio immaginato come un fantasma, un prodotto della mente ormai turbata della protagonista: ma quello cui davvero non potevo credere è che la sua voce fosse stata alonata, quasi come in un film horror di serie b, per sottolineare questa idea registica. Un espediente, devo dire, non accettabile. Parto da questo, che non è un semplice dettaglio, per parlare del film-opera realizzato sull’opera di Cilea dal Teatro Comunale di Bologna, con la regia di Rosetta Cucchi e la prestigiosa partecipazione, nel ruolo della protagonista, di Kristine Opolais, che debuttava come Adriana. La Cucchi ambienta l’opera in quattro epoche diverse, una per atto: il 1730, il 1860, il 1930 e il 1968. E già qui ci si chiede perché: Adriana non è un mito metatemporale, non è Arianna o Medea, non è un simbolo di pazza per amore, o di amante relicta, ma un personaggio singolarmente caratterizzato da una partitura che musicalmente vive in un delicato, ma affascinante equilibrio tra volute liberty e parodia (in senso musicale) del Settecento, specie francese. E poi, perché proprio il 1860 per il secondo atto, peraltro il più debole in questa produzione? E se molto bella è l’idea di sfruttare interamente i luoghi del teatro, compresi corridoi e foyer, facendo seguire i cantanti con una steadycam, il duetto fra le due donne in due palchi affiancati purtroppo rimandava più ai Muppet che allo scontro di due grandi primedonne tragiche. Parimenti pretestuoso mi è parso ambientare il terzo atto negli anni Trenta del ‘900, proiettando qualche pellicola cinematografica sullo sfondo, mentre il quarto atto aveva elementi di grande intensità ma anche ingenuità evidenti: fra i primi, la solitudine esistenziale di una Adriana turbata mentalmente, chiusa in una stanza soffocante che evoca certo teatro di ricerca (o un film di Godard, come suggerisce la Cucchi), fra le seconde i riferimenti — inutili e malfatti — al ’68 parigino. Per non parlare di come l’alternanza fra senno e follia della protagonista (questo sì un topos di tutte le “pazzie” operistiche, dalla Nina di Dalayrac in poi) sia stata, in questa lettura della Cucchi, completamente trascurata. Insomma, quello che non convince è il fare di Adriana una sorta di paradigma dell’attrice in varie epoche: un peccato, perché i momenti intensi e convincenti non mancano, a partire da una scena finale in cui le “ombre” teatrali passate sembrano accogliere la morente che va verso di loro.
Come detto, Kristine Opolais debuttava in un ruolo che come pochi è “da primadonna”: il soprano lettone è una donna bellissima, dal carisma naturale, e si è impegnata a fondo anche nelle difficili (anche per le italiane…) parti recitate. E non si può che applaudirla per questo. Ma vuoi per l’ovvia inesperienza nella parte, vuoi per una voce che sembra patire precocemente una certa consunzione timbrica, il canto non conosce e non cerca neppure le malie delle grandi Adriane del passato, con un gioco di colori davvero troppo ristretto: un esempio per tutti, l’esecuzione corretta ma priva di pathos di “Poveri fiori”. Veronica Simeoni è un’artista di grande professionalità, ma continuo a ritenere che dovrebbe evitare le parti da mezzosoprano drammatico, che la mettono troppo alla corda, mentre Luciano Ganci (anch’egli al debutto) ha squillato a dovere in un ruolo piuttosto lineare, ma anche da lui mi aspetto, in futuro, una maggiore raffinatezza nel dosaggio di piani e pianissimi. Ottimo, invece, il Michonnet di Nicola Alaimo, che come pochi sa mettere in risalto la tenera fragilità del suo personaggio, che contrasta con ottima efficacia con l’imponenza fisica della persona. Asher Fisch, infine, dirige con le briglie serrate, evitando di indulgere a languori e puntando tutto sulla brillantezza e sull’intensità drammatica: una scelta legittima, benissimo portata avanti, ma non posso fare a meno che le nuvole sonore che un Gavazzeni sapeva evocare con la partitura di Cilea sono qualcosa che oggi, forse, nessuno può più permettersi.
Nicola Cattò