BERG Wozzeck C. Gerhaher, M. Byström, T. Blondelle, B. Sherrat, P. Hoare, R. Lewis, H. Mas, M. Toulouse, T. Kumiega, L. Bardet, D. Frantou; Estonian Philarmonic Chamber Choir, London Symphony Orchestra, direttore Simon Rattle regia Simon McBurney scene Miriam Buether costumi Christina Cunningham
BENJAMIN Picture a day like this M. Crebassa, A. Prohaska, B. Mordal, C. Shahbazi, J. Brancy; Mahler Chamber Orchestra, direttore George Benjamin regia, scene e luci Daniel Jeanneteau e Marie-Christine Soma costumi Marie La Rocca
WEILL L’opéra de quat’sous Troupe de la Comédie-Française. Le Balcon, direttore Maxime Pascal regia Thomas Ostermeier scene Magda Willi costumi Florence von Gerkan luci Urs Schönebaum.
MOZART Così fan tutte A. Eichenholz, C. Mahnke, R. Trost, R. Braun, G. Nigl, N. Chevalier; Coro e Orchestra Balthasar Neumann, direttore Thomas Hengelbrock regia e scene Dmitri Tcherniakov costumi Elena Zaytseva luci Gleb Filshtinsky
Aix-en-Provence, Grand Théâtre de Provence, 13 luglio 2023; Théâtre du Jeu de Paume, 14 luglio 2023; Théâtre de l’Archevêché, 14 e 15 luglio 2023
Nel 2023 il festival d’Aix-en-Provence ha celebrato il suo 75esimo anniversario. La scelta, decisamente singolare, di inaugurarlo con L’Opera da Tre Soldi di Weill e Brecht, in una nuova traduzione in francese approntata per l’occasione (donde il titolo L’Opéra de quat’sous), si prestava (almeno così era lecito attendersi) ad una riflessione generale sul teatro musicale: le sue convenzioni espressive, la sua funzione, il suo pubblico, il suo avvenire; tanto più che la ben nota “forma epica” del teatro brechtiano avrebbe dovuto favorire una disposizione d’animo distaccata e razionale. Se questo era l’intento, occorre purtroppo constatare che esso è stato vanificato dall’allestimento banale e prolisso di Thomas Ostermeier. La scenografia è costituita da un’impalcatura e una gradinata metallica, sormontate da alcuni schermi di fogge differenti, su cui scorrono immagini di vario tipo; in questo contesto lo spettacolo non si discosta mai da un primo grado di lettura alquanto triviale che, a causa delle lungaggini dei dialoghi e delle gag insistite (mortalmente noiosa quella delle torte in faccia durante il matrimonio tra Mackie Messer e Polly) finisce con l’indisporre una parte del pubblico: le due ore e tre quarti di durata senza intervallo spingono un numero non esiguo di spettatori ad abbandonare anzitempo il teatro. Peccato, perché la parte orchestrale non era priva di interesse. Alla testa del suo ensemble Le Balcon, Maxime Pascal rivisita la strumentazione, introducendo sonorità elettroniche; mette in adeguata evidenza le dissonanze della musica di Weill, pur preservando la cantabilità delle melodie; restituisce in maniera efficace la multiformità stilistica di una partitura ricca di contaminazioni. Quanto ai vari personaggi, essi sono affidati ai valenti attori della Comédie Française, che recitano con prevedibile disinvoltura e, nel complesso si dimostrano anche buoni ballerini. Il canto, però, microfonato e non impostato (come peraltro da originarie prescrizioni del compositore stesso), lascia, salvo poche eccezioni (una di queste è la Polly di Marie Oppert), alquanto a desiderare.
Ben altro servizio alla causa dell’opera lirica hanno reso George Benjamin e Martin Crimp (rispettivamente compositore e librettista), alla loro quarta collaborazione in ambito operistico, tra le quali figura la ben nota Written on Skin, che proprio a Aix-en-Provence ha visto la luce nel 2012 e che — fatto inusuale per un’opera contemporanea — ha beneficiato di svariate riprese ed è stata financo immortalata in un video Opus Arte, insieme all’altro capolavoro della coppia Benjamin-Crimp Lessons in Love and Violence. Il segreto del successo di Benjamin — che ha davvero pochi eguali tra i compositori d’opera del nostro tempo — risiede in un linguaggio musicale che coniuga antico e moderno, con contrasti violenti e subitanei che si alternano a lunghi momenti di sospensione introspettiva, caratterizzati da sonorità fioche e lunghi silenzi. I costrutti melodici, benché tendenzialmente brevi, risultano comunque accattivanti. Il quadro è completato da impasti timbrici ricercati, magistralmente messi in evidenza dalla Mahler Chamber Orchestra, diretta dallo stesso Benjamin. Picture a day like this — che rispetto alle citate Written on Skin e Lessons in Love and Violence ha le dimensioni più ridotte dell’opera da camera — racconta di una madre che perde un figlio in tenerissima età; il rifiuto di accettare una tragedia inspiegabile la spinge ad illudersi che potrà riportare in vita la sua creatura, a condizione di incontrare una persona che si dichiari felice e che sia disponibile a donarle un bottone dalla manica di un suo vestito. I vari incontri che si susseguono sono inizialmente promettenti, ma si rivelano, in ultima analisi, deludenti: nessuno è veramente felice, a dispetto delle apparenze. Perfino l’enigmatica Zabelle, ultima persona incontrata dalla donna, finisce col frustrarne le aspettative, lasciando intendere di essere felice proprio in quanto non esiste. Ma da quest’ultima esperienza negativa sembra nascere nella donna la motivazione, nonostante tutto, a proseguire lungo il cammino della sua esistenza; questa è, quanto meno, la sensazione trasmessa da un finale aperto e ambiguo, che corona un’ora e un quarto di emozione crescente, acuita dalla riuscitissima messa in scena di Daniel Jeanneteau e Marie-Christine Soma, che si avvale, tra l’altro, dello spettacolare scenario onirico e lussureggiante ideato da Hicham Berrada in occasione dell’incontro tra la donna e Zabelle. Col suo timbro caldo e vellutato e la sua voce ricca nel registro medio-grave, Marianne Crebassa è una madre di straordinaria intensità, che alterna momenti di rovente espressività ad altri di ripiegamento interiore. Tra gli altri interpreti, tutti esemplari, vale la pena di citare almeno la Zabelle di Anna Prohaska e la bronzea voce di baritono di John Brancy, impegnato nel duplice (e arduo) ruolo dell’Artigiano e del Collezionista.
L’impianto scenico del Wozzeck firmato da Simon McBurney è una prospettiva grigia non troppo profonda, installata su una pedana circolare, rotante all’occorrenza in senso antiorario, e che funge sia da interno (la casa di Wozzeck, la taverna, la caserma), sia da esterno (la foresta, la via nella quale sfilano i soldati, lo stagno in cui si consuma la tragedia finale). Al centro una semplice porta semovente suggerisce i passaggi da un ambiente all’altro in maniera semplice ma evocativa. Il racconto prende le mosse dal suicidio finale di Wozzeck, il quale rivive dunque mentalmente gli avvenimenti che l’hanno preceduto, deformati e amplificati attraverso l’utilizzo di proiezioni. Anche in forza di una direzione degli attori fedele al libretto, la messa in scena assume dunque una doppia valenza, realista e simbolica, che restituisce icasticamente la spirale umiliante e tragica che trascina progressivamente Wozzeck negli abissi dell’alienazione mentale autodistruttiva. In totale sintonia con questa visione, Christian Gerhaher è un protagonista di volta in volta violento e allucinato, duro e smarrito, che mette a nudo un fisico possente ma segnato dalla fatica e che, nel quadro di un timbro dalle modulazioni costantemente cangianti, offre un fraseggio cesellato in ogni sillaba. Il cinismo, l’erotismo, il senso di colpa, la tenerezza dell’istinto materno, il nichilismo di Marie trovano in Malin Byström un’interprete di notevole spessore scenico e di buona tenuta vocale. Di alto livello il resto del cast, al pari degli interventi dell’Estonian Philharmonic Chamber Choir. Contrasti dinamici esasperati e fortissimi di una potenza inaudita caratterizzano la direzione vibrante di Simon Rattle. Il suono compatto e opulento della sensazionale London Symphony Orchestra lascia comunque filtrare la miriade di dettagli strumentali disseminati lungo la partitura, che emergono da questo incandescente magma orchestrale con sorprendente plasticità e trasparenza. Al termine il pubblico festeggia lungamente (e giustamente) la riuscita di questa produzione.
Due coppie di amici sulla cinquantina decidono di passare un fine settimana in una lussuosa tenuta di campagna, ospiti dell’ambigua coppia Don Alfonso-Despina. Durante la cena di benvenuto appare presto chiaro il motivo del convegno: uno scambio di coppie, ritenuto propedeutico a “speziare” vite agiate ma noiose. Niente travestimenti dunque: il gioco è esplicito e accettato da tutti – per la verità, non senza qualche riluttanza iniziale da parte delle signore. Per rendere più realistico il Konzept di questo Così fan tutte (che fu, settantacinque anni fa, il primo titolo ad essere proposto a Aix), Dmitri Tcherniakov ha preteso che venissero reclutati dei cantanti di mezz’età. Nel prosieguo, il gioco sfugge di mano e degenera, facendo emergere la vera natura di Don Alfonso: una sorta di sexaholic manipolatore e violento, che prende in ostaggio i quattro amici, umiliandoli brutalmente, prima di essere inopinatamente ucciso da una fucilata di Despina, giunta evidentemente ai limiti della sopportazione. Questa deriva horror lascia francamente perplessi in quanto finisce col sovraccaricare una regia il cui assunto di base è indubbiamente stimolante e che ha l’indiscutibile merito di modernizzare il racconto, avvicinandolo al sentire contemporaneo e facendo altresì piazza pulita delle improbabili buffonerie su cui troppe produzioni ancora oggi calcano la mano. La concertazione sbiadita e senza mordente di Thomas Hengelbrock alla guida di un’orchestra Balthasar Neumann imprecisa e querula — le cui sonorità agre e incerte ci precipitano agli albori della pratica strumentale storicamente informata — compromette ulteriormente l’esito della produzione. Per quanto riguarda il cast, va anzitutto osservato che i lunghi recitativi di quest’opera richiedono ben altra padronanza della lingua italiana: anche in questo caso, veniamo ripiombati indietro di mezzo secolo; sarebbe forse bastato ingaggiare un language coach… Ma nemmeno il canto offre motivi di soddisfazione, soprattutto côté messieurs: Rainer Trost non era un buon Ferrando quando debuttò il ruolo negli anni ’90 del secolo scorso e non può dunque esserlo adesso; il Don Alfonso di Georg Nigl confonde il canto mozartiano con uno Sprechgesang infarcito di caccole; Russel Braun è un Guglielmo corretto ma pallido. La Despina di Nicole Chevalier, costantemente aggressiva e sopra le righe, canta una lingua tutta sua e mi pare un evidente errore di distribuzione. La Fiordiligi di Agneta Eichenholz e la Dorabella di Claudia Mahnke mettono in mostra una vocalità più ortodossa e controllata, ma siamo comunque lontani dall’eccellenza. Discreto il coro, i cui interventi sono “attivati” da don Alfonso mediante un telecomando. Prevedibili le contestazioni finali all’indirizzo di un regista sempre geniale ma che, questa volta, fatichiamo a difendere.
Paolo di Felice
Foto: Jean Louis Fernandez