STRAUSS Salome Lise Lindstrom, Nicholas Brownlee, John Daszak, Katarina Dalayman, Joel Prieto, Karina Kherunts; Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, direttore Marc Albrecht regia Barrie Kosky scene e costumi Katrin Lea Tag
Roma, Teatro Costanzi, 10 marzo 2024
Abbiamo avuto l’occasione d’avere grandi esperienze della Salome di Richard Strauss assai più che di altre opere del repertorio tedesco: da quella udita per radio nel 1962 da Spoleto (Tynes, Schippers) a quella alla RAI di Roma del 1971 (Caballé, Mehta), da quella all’Opera di Roma nel febbraio, del 1977 (Weathers, von Matačić) a quella del 1987 ancora Spoleto (Spiros Argiris e una messa in scena formidabile di Patrice Caurier e Moshe Leiser); poi ancora, al Costanzi o altrove (Lione, Amburgo), con esiti molto o poco interessanti, non dimenticando l’eccezionale “variante” inventata da Lindsay Kemp. E beninteso non ci mancano alcune edizioni di riferimento in disco o in video, da Krauss e Mitropoulos a Reiner e Karajan, da Sinopoli fino all’Harding invero notevole della Scala nel 2007. Insomma, un nostro piccolo culto musicale privato e fortunato.
A diciassette anni dall’ultima produzione (quella con la regia di Giorgio Albertazzi), il Teatro dell’Opera, affidandosi ad un direttore di vaglia come Marc Albrecht, ad un cast di ottimo livello e ad un regista celebre come Barrie Kosky, ha riportato il capolavoro di Strauss al godimento del pubblico romano. Sensazione questa che in verità non ci ha molto pervasi: anzi siamo usciti dal Teatro, nel traffico e nell’umido d’un tardo pomeriggio di fine inverno, con più di un’inquietudine. Che andiamo a confidarvi. La musica, prima, il resto poi…
Il direttore Marc Albrecht (figlio di Georg Alexander e cugino di Ursula von der Leyen) ha optato in tal Salome per una lettura orchestrale violenta, più a forti tinte che realmente (ed anche legittimamente) espressionista. Esaltante e calamitante applausi alla fine (non dicemmo qui, or non è molto, che sempre più gli applausi si vanno commisurando ai decibel?), ma a ben vedere limitativa. Non è stato concesso da Albrecht che pochissimo spazio ai languori d’una sensualità ormai esausta, ai silenzi, ai fruscii, ai lezzi d’una notte di mistero e d’atrocità, alle sospensioni rubate al tempo e concesse alla lussuria del canto, ai narcisismi timbrici dell’orchestrazione, alle madide suggestioni orientali. Tutto è apparso netto, efficiente, scolpito a grandi blocchi sonori: ma brutale forse, certo poco dialettico, pochissimo raffinato. I cantanti forzosamente vi s’adeguavano. Lise Lindstrom, ad esempio, è parsa pregevole soprattutto quando, nel finale, si è potuta dilettare di mezzevoci e pianissimi assai suggestivi; meno quando (a torto o a ragione) si è vista costretta a forzare uno strumento sì cospicuo, ma poi, a chiedergli troppo, decisamente aspro. Invincibile ad ogni tempesta era per contro la voce schiettamente bass-baritonale di Nicholas Brownlee (cognome fortunato per l’opera e non da oggi), che ha portato in scena uno Jochanaan possente, ma meno ascetico che tentato, meno profeta che uomo. più carnale che spirituale si licet, comunque tra i migliori da noi uditi di recente. John Daszak, tenore caratterista specializzato in un repertorio che dire “mitteleuropeo” ben ne chiarisce l’ambito, è stato un Herodes che con un’altra direzione avrebbe potuto fornire una prova ancor più analitica di quella peraltro già notevole offerta. Katarina Dalayman, ora stabile nei ruoli di mezzosoprano di carattere dopo una lunga carriera sopranile, ha impersonato un’Herodias non troppo coinvolta, anzi a tratti sommaria. Lo spagnolo Joel Prieto ha cantato (benissimo) un vibrante Narraboth e tutti gli altri, anche e soprattutto i cinque Ebrei coinvolti nell’intricatissima baruffa rabbinica, son risultati più che ragguardevoli.
Discorso ben più complesso si apre per la regia di Barrie Kosky. Eccone alcuni dettagli. Il sipario tagliafuoco è chiuso, il direttore entra all’abbassarsi delle luci in sala. Buio e silenzio totali: s’odono a giro rumori, come d’un grattar di topi o d’uno sfrantumarsi di legni. Quindi la scena è resa visibile e in uno spot dall’alto, sempre nel silenzio, appare Salome vestita da sera con un enorme copricapo, una sorta di meduseo fiore d’argento e lustrini. Inizia l’opera. Non scene, non segni sia pur minimali d’un ambiente. Nel buio assoluto solo su chi canta, magari anche solo su una mano o s’un dettaglio s’accende una luce. Abiti moderni, se tali possono chiamarsi, e parrucche invero orrende: e Jochanaan, per l’adiposa stazza e per i mutandoni ascellari, evocava memorie fantozzesche. Così, dettaglio più dettaglio meno, per l’ora e tre quarti della Salome. Lei, la giovinetta figlia d’Erodiade e d’Erode Filippo (fratello di Erode Antipa, qui in scena), ch’era stata educata a Roma, dove aveva appreso a mirabilmente danzare (lo riferisce lo storico Giuseppe Flavio), è per Kosky una bambinaccia capricciosa che s’abbarbica lasciva al profeta, batte i pugni e i piedini o sta del tutto immobile. E al momento della danza, di tutta la danza, si siede a gambe larghe e si trae dal grembo un’interminabile treccia o canapo o viscere che siano, arrotolandole a terra. Ottenuta poi urlando la testa del Battista, la appenderà ad una fune con un gancio da macelleria e la farà largamente ondeggiare sul palcoscenico. Ora tutto questo è qui raccontato per dovere d’informazione. Il vero problema che dalla produzione di Kosky discende è un altro e assai più grave di simili inezie. È che tal regia (come tante altre ai nostri giorni) nega l’idea stessa dell’opera lirica come “spettacolo”: via luogo, via tempo, via tutto, via l’eventualità d’una delectatio dello spettatore, da relegarsi tra i menus plaisirs d’epoche e società aristocratiche o alto-borghesi. Il buio è quel che il pubblico merita, colpevole d’aver goduto in altre epoche della Wallmann o di Visconti, di Samaritani o di Ronconi, di Strehler o di Zeffirelli. Quest’ideologia della mise en scène penitenziale ed educativa, lo diciamo apertamente, ci fa ribrezzo e paura. Perché la fase successiva al buio (e l’inizio della presente Salome lo indicava) sarà il silenzio. E l’opera, come Roma nei vaticini di Norma, “morrà pei vizi suoi”.
Maurizio Modugno
Foto: Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma