Al Carlo Felice le ombre di Verlaine si allungano sulla “Buona Canzone” di Fauré

Claudio Marino Moretti e Benedetta Torre (foto: Marcello Orselli)

“Hommage à Fauré” La bonne chanson; Cinq mélodies de Venise; “Prison”; “Spleen”; “Clair de lune” soprano Benedetta Torre pianoforte Claudio Marino Moretti

Genova, Teatro Carlo Felice (Foyer), 13 ottobre 2024

All’interno di una stagione sempre più articolata, da qualche anno l’Opera Carlo Felice ha inserito anche un ciclo di concerti dal significativo titolo “Novecenti”. Per la stagione 2024-2025 la serie sarà (coraggiosamente!) dedicata alla lirica da camera, e affidata a Claudio Marino Moretti, che da due anni è direttore del Coro del Teatro, ma ha anche una lunga esperienza come pianista accompagnatore. La ricorrenza del centenario della morte di Gabriel Fauré ha suggerito di aprire la rassegna (sei appuntamenti tra ottobre e maggio, ospitati nel Foyer del teatro la domenica mattina) con un concerto interamente dedicato al compositore occitano, presentandone in particolare tutte le melodie su liriche di Paul Verlaine. Pagine che in realtà anticipano di pochi anni la svolta del secolo (furono composte infatti tra il 1887 e il 1894), ma che non rappresentano assolutamente una scelta impropria per un ciclo dedicato alla musica del Novecento: Fauré infatti fu il compositore capace di traghettare il genere della Mélodie dai salotti a una dimensione più elevata e autonoma, profonda espressione della cultura francese, dotata di peculiarità che la differenziano sia dalla romanza italiana che dal Lied tedesco; un percorso che venne poi variamente portato avanti da Debussy, Ravel, Poulenc. E proprio un ciclo come La bonne chanson, proposto in apertura di concerto, con la sua instabilità armonica seppe anticipare certe complessità novecentesche, all’epoca sconcertando gli stessi ammiratori di Fauré.

Vi è una differenza sostanziale tra le due storie d’amore protagoniste della Buona canzone: quella tra Verlaine e la sua sposa-bambina, Mathilde Mauté de Fleurville, descritta in ventuno poesie, non è priva di ombre e di angosce; accuratamente evitate da Fauré, che canta con gioia entusiasta la sua passione per la musa Emma Bardac, inanellando solo nove di quelle liriche e omettendo anche qualche strofa meno solare da quelle prescelte (espunge ad esempio da “N’est-ce pas?” le terzine un po’ paranoiche, e sorvola sull’accenno alla “Parigi uggiosa e malata” nella poesia conclusiva). Sembra che qualcuna delle cupezze verlainiane sia stata volutamente trasferita da Benedetta Torre e Claudio Marino Moretti nel ciclo di Fauré, il che ne costituisce l’individualità della lettura. Apprezzo il soprano genovese sin dal suo (precoce) debutto nel Simon Boccanegra, ormai nove anni or sono, e ho seguito con piacere la sua evoluzione, anche nelle apparizioni successive al Carlo Felice: ad esempio come Héro (Béatrice et Bénédict) e Ilia (Idomeneo). Attendevo quindi con una certa aspettativa questa sua incursione in ambito liederistico; ma anche con qualche timore, perché il genere è interpretativamente spinoso e richiede molta esperienza, mentre non mi risulta che la Torre abbia finora perseguito con particolare intensità (almeno in pubblico) la romanza da camera. La cantante tuttavia mi ha sorpreso assai positivamente: la voce flessibile, fresca ma anche ambrata nel registro grave, si adatta perfettamente alle tessiture richieste da Fauré, convincendo per la capacità di aderire alle fluttuazioni dinamiche indicate dallo spartito e impressionando in particolare per la compiutezza dei frequenti e delicati salti di ottava, sempre sicuri e timbrati (uno per tutti: il “que je t’aime” che suggella “J’ai presque peur, en vérité”, coronato da una splendida messa di voce); la dizione è piuttosto eloquente, la linea elegante, l’espressione sincera. La sua non è certo la Bonne chanson a fior di labbra a cui alcuni specialisti ci hanno abituato: magari sarà anche un po’ più “all’italiana”, ma senza mai nemmeno avvicinarsi al rischio di un approccio troppo melodrammatico. L’intensità espressiva, la passionalità sottocutanea, la sensazione di percepire e restituire il contesto amoroso come qualcosa di autenticamente vissuto hanno caratterizzato pagine come “Puisque l’aube grandit”, melodia caratterizzata da una continua alternanza di forte e piano che la Torre ha seguito con molta attenzione, realizzando poeticamente l’indicazione dolce dello spartito a “l’espoir” e riportandola in maniera altrettanto espressiva sul conclusivo “d’autre Paradis”; così come la sesta melodia, dallo splendido incipit poetico (“Avant que tu ne t’en ailles, / Pâle étoile du matin”), suggellata da un “Car voici le soleil d’or” in cui la Torre ha affrontato senza paura il forte sempre prescritto da Fauré. “La lune blanche” invece è stata percorsa con espressione sognante, ma sensuale, impreziosita da una bellissima messa di voce a “Rêvons, c’est l’heure”. Forse a tratti è mancato un poco un approccio più sorridente, come in “N’est-ce pas?”, conclusa peraltro da una splendida filatura sul finale; ma non bisogna dimenticare che il giovane soprano ha ancora davanti a sé decenni per approfondire la sua visione del ciclo e del repertorio. Moretti invece ha fatto tesoro della sua lunga e multiforme esperienza con le voci creando un tutt’uno con il canto, ma ha saputo anche prendersi giustamente i suoi spazi in un ciclo che richiede un pianoforte sempre vivido e reattivo.

Analoghe considerazioni si possono estendere al resto del programma, che proseguiva con le splendide Cinq mélodies de Venise e infine con “Prison”, “Spleen” e la celebre “Clair de lune”. Bellissimi i colori trovati dalla Torre sul verso conclusivo di quest’ultima, così come le ambrature quasi mezzosopranili di “En sourdine”, che fanno avvertire fin dall’inizio la presenza sottocutanea del “désespoir” che nell’apparente idillio amoroso si affaccia, inatteso, nel penultimo verso; avvincenti “Green” e “Prison”. Col tempo il soprano genovese saprà farci visualizzare con maggiore nitidezza le differenti figure che fanno capolino in “Mandoline” (“C’est Tircis et c’est Aminte, / Et c’est l’éternel Clitandre, / Et c’est Damis…”) o le pennellate ambientali di “C’est l’extase”. Nel frattempo ci allineiamo al vivo apprezzamento tributato al nostro binomio dal pubblico, che ha così ottenuto due bis “verlainiani”: “Apaisement” di Chausson e “Clair de lune” di Debussy.

Roberto Brusotti

Data di pubblicazione: 15 Ottobre 2024

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