VERDI Stiffelio L. Ganci, C. Marchesini, V. Stoyanov, C. Raffaelli, G. Sagona, F. Pittari, S. Rossini; Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona, direttore Leonardo Sini regia e luci Guy Montavon scene e costumi Francesco Calcagnini
Verona, Teatro Filarmonico, 27 ottobre 2024
Questo Stiffelio veronese, firmato da Guy Montavon, risale al 2012, quando lo si vide al Regio di Parma (una coproduzione con l’Opéra di Monte Carlo) e mantiene una sua complessiva efficacia: in un ambiente racchiuso da spazi ampi e squadrati e cromaticamente determinato da tinte grigie, penitenziali, spiccano al primo atto — con una simbologia fin troppo evidente — il rosso del “peccatore” Raffaele e, nella scena conclusiva, l’abito bianco di Lina, che aspira a quel perdono che avrà dal pastore Stiffelio, ma non dall’uomo, che esce di scena senza guardarla. Per il resto, una regia tradizionale ed efficace, chiara nel delineare i rapporti tra i personaggi e le loro psicologie, che si affida con buon senso alle ragioni della musica: un’opera di straordinaria modernità per i temi che affronta (un sacerdote tradito che chiede e ottiene il divorzio: e siamo nel 1850!) e che, pur saldamente ancorata alle strutture formali e alle costruzioni armoniche delle opere precedenti, apre la porta alla cosiddetta “Trilogia popolare”, di poco successiva. Il ruolo di Stiffelio è stato talora accostato a quello di Otello, per il rovello psicologico che lo contraddistingue e per lo strenuo impegno richiesto al tenore che lo interpreta, che pure non ha un’aria vera e propria (la guadagnerà in Aroldo, rifacimento successivo dell’opera, e sarà “Sotto il sol di Siria ardente”): Luciano Ganci, che fu protagonista del (fin troppo) acclamato di Graham Vick al farnese di Parma, ogni volta che lo si ascolta è un po’ più convincente della precedente, sia per questioni strettamente vocali — lo squillo perentorio dei tanti acuti di cui è costellata la partitura, offerti senza risparmio — sia per il modo schietto e intenso in cui rende le contraddizioni del personaggio, con un culmine davvero emozionante nel “Me disperato abbruciano” del finale secondo. Ganci ha una vera voce all’italiana, intesa nel miglior senso antico, secondo quella linea che da Beniamino Gigli arriva fino al suo celeberrimo omonimo (Pavarotti, ovviamente…): e la solarità, l’estrema comunicativa di quello che canta è sempre veicolo diretto per un fraseggio semplice ma non certo semplicistico, anzi ricco di sfumature.
Al suo fianco ho riascoltato, nei panni di Lina, quella Caterina Marchesini che mi aveva colpito nel recente Ballo bussetano (qui la recensione): in un teatro di dimensioni ben maggiori, il giovane soprano mostra una comprensibile prudenza, evidenzia una certa fragilità nei centri ma anche un’eleganza nel canto e un’intensità nell’espressione che non fanno che confermare quanto di buono avevo intuito poche settimane fa. Nella grande aria del secondo atto, poi, colpiscono i lunghi fiati, che sostengono un legato di qualità e un timbro dal bel colore nel cantabile, mentre la cabaletta è risolta con correttezza, se non proprio con brillantezza. Vladimir Stoyanov, in forma vocale migliore rispetto alla recente Battaglia di Legnano (di cui ho reso conto qui), ha convinto il pubblico con una sensibile lettura dell’aria del terz’atto, mentre tutti i comprimari erano scelti con cura: il Raffaele eloquente di Carlo Raffaelli, lo Jorg tonante di Gabriele Sagona, senza dimenticare Francesco Pittari (Federico: un vero lusso) e Sara Rossini, che nei panni di Dorotea rinforzava — come molte sue analoghe verdiane — la linea della primadonna nei concertati.
La recita è iniziata con venti minuti di ritardo per uno sciopero dell’orchestra, che protestava per le modalità comunicative legate alla proposta in Corea della Turandot nata per l’Arena e per altre situazioni: tutto lecito, ci mancherebbe, ma non avere detto nulla al pubblico presente (sono stati distribuiti alcuni volantini, ma solo a pochi spettatori) non torna a onore della Fondazione. E, inoltre, la celebre sinfonia è stata eseguita ad organico incompleto, poiché l’orchestra ha raggiunto i pieni ranghi solo dopo la fine della pagina introduttiva: davvero un comportamento non condivisibile. Per il resto, la direzione di Leonardo Sini è sembrata badare all’incisività più che al dettaglio, ma fatti salvi alcuni momenti imprecisi non è dispiaciuta. Successo calorosissimo, e trionfale per Luciano Ganci, pronto a passare dalla tonaca di Stiffelio al saio di Alvaro nella Forza scaligera.
Nicola Cattò
Foto: Ennevi