Intervistandolo nel giugno 2018, quando era in copertina su MUSICA, il nostro collaboratore Luca Segalla così iniziava l’articolo dedicato ad Alessandro Marangoni:
«Sono diversi i pianisti ad essersi accostati, negli ultimi quindici anni, ai curiosi e provocatori pezzi e pezzettini dei quattordici volumi dei Péchés de vieillesse, enigmatico testamento musicale del vecchio Rossini. Quella di Marangoni è però la prima vera integrale, estendendosi anche a tutta la musica da camera e a tutti i brani vocali (nella quasi totalità registrati con cantanti italiani), compresi i brani coevi ai Péchés ma non presenti nei volumi della raccolta ufficiale, oltre a una ventina di inediti scoperti di recente. Un lavoro impegnativo e pieno di sorprese, perché i circa duecento pezzi di questo corpus sono stilisticamente molto eterogenei e delineano il ritratto di un compositore sornione ed ironico, sospeso tra la leggerezza galante del salotto e il colpo di genio capace di spalancare all’improvviso le porte su quel Romanticismo che, a parole, Rossini diceva di detestare, e capace perfino, in alcune occasioni, di andare anche oltre il Romanticismo, anticipando il primo Novecento pianistico francese di Satie e Debussy. Classe 1979, un diploma al Conservatorio di Alessandria e quindi il perfezionamento con Maria Tipo e Pietro De Maria, Alessandro Marangoni vive la musica da una prospettiva decisamente singolare. Ha registrato un’integrale del Gradus ad Parnassum di Clementi ed è un grande esperto di rarità pianistiche del Novecento italiano, da Castelnuovo-Tedesco a Victor De Sabata: il suo debutto al Teatro alla Scala, nel 2007, è avvenuto proprio per presentare, in prima esecuzione mondiale, i lavori pianistici del direttore d’orchestra e compositore triestino. È un pianista curioso e disposto a mettersi in gioco tentando vie nuove del repertorio, in concerto e non soltanto in sala di registrazione, un pianista perfetto per avventurarsi nelle finezze armoniche, nei controsensi e nell’ironia dei pezzi pianistici rossiniani. Avventurarsi senza perdere la bussola, senza lasciarsi ingannare dai trabocchetti disseminati ovunque da un Rossini che finge di essere serio quando invece è leggero e finge di scherzare – i suoi sono però scherzi musicalmente molto raffinati – quando è serio».
Ora, a quasi cinque anni di distanza, la giuria degli International Classical Music Awards ha deciso di premiare Marangoni con un premio speciale proprio per questa ponderosa impresa discografica, giunta a termine e che Naxos ha pubblicato in un singolo cofanetto: a Breslavia Marangoni proporrà, il 21 aprile, l’Andante spianato e grande polacca brillante di Chopin nella (non comune) versione con orchestra. L’abbiamo incontrato per “aggiornare” quanto ci aveva detto 5 anni fa.
Come è nato questo progetto? E come è cambiato strada facendo?
Il progetto è nato un po’ per caso: non conoscevo questa ingente mole di musica rossiniana. Studiando con Maria Tipo, un giorno mi ha detto che da giovane suonava qualche Péchés, e che pensava sarebbero stati adatti a me. Allora ho iniziato a fare ricerche e mi sono reso conto della dimensione di questa produzione: ho capito che sarebbe stato un grande lavoro non solo come pianista, ma anche come ricercatore, il che mi appassionava molto. Gli spartiti non erano facilmente reperibili, spesso fuori catalogo… Allora ho iniziato — era il 2008 — pensando di mettere insieme una selezione di Péchés per un singolo CD; ma ho notato che non esisteva una vera integrale di questo repertorio, quindi ho proposto a Naxos, la mia casa discografica, di colmare questo vuoto. Hanno reagito con entusiasmo. Ma il progetto iniziale è cresciuto col passare degli anni, grazie anche all’apporto di amici del calibro di Alberto Zedda, Bruno Cagli (che fu il primo a darmi un paio di manoscritti che possedeva) e al lavoro con la Fondazione Rossini, che mi ha messo a disposizione i manoscritti. Noi pianisti siamo abituati a lavorare con partiture edite, e questo è stato diverso dal solito, oltre che emozionante. Alcuni brani di questa integrale non erano stati mai incisi, altri erano proprio ignoti, come il Tema e variazioni che era in mezzo ad altri fogli alla Fondazione Rossini, ed era sfuggito a tutti (e non era nel catalogo dei Péchés che lo stesso Rossini ha compilato).
Quante pagine sono state incise in prima assoluta?
Venti. E non è finita: ci sono un paio di pezzi scoperti dopo. Uno addirittura il giorno dopo avere finito le registrazioni. Sono due cose piccole, ma le avrei incluse nei CD! E probabilmente ci saranno altre scoperte.
Come hai organizzato la divisione tra i CD? Una scelta culturale o prettamente pratica?
Ho cercato di avere coerenza. All’inizio pensavo di registrare album per album, e far corrispondere un disco ad ogni album: ma non funzionava a livello di timing. Allora ho fatto delle scelte, privilegiando l’unitarietà dei contenuti. Per i 24 Riens è stato facile, hanno occupato un CD intero; altre volte ho dovuto inventarmi soluzioni diverse.
La domanda è difficile, ma quali sono i pezzi più interessanti, se dovessi sceglierne due o tre?
Voglio citare la Tarantelle pur sang (ripresa anche da Respighi nella Rossiniana), che era molto noto ma non nella versione originale, che ho ritrovato a Bruxelles: quindi non più il pianoforte solo, ma pianoforte con harmonium, clochettes e coro, le cui parti originali ho recuperato. E poi, tra le rarità, tutti quei pezzi come Ouf! Les petits pois o quei preludi che riecheggiano stili del passato (Prélude baroque, Prélude fugassé); altre pagine aprono una nuova prospettiva su Rossini, che abbraccia un tipo di scrittura pianistica già pienamente romantica. Siamo negli anni ’60 dell’800, alcuni brani riecheggiano Schubert, Chopin o Liszt.
Però tu non hai scelto uno strumento storico, bensì un moderno Steinway…
Pur rispettando le incisioni esistenti che fanno uso di pianoforti d’epoca, che trovo splendide, ho scelto diversamente: Rossini era appassionato di organologia, cercava strumenti sempre più performanti dal punto di vista dinamico e timbrico, basti pensare al rapporto che ha avuto con Cavaillé-Coll, che è diventato grande anche grazie a Rossini. Questa attenzione allo sviluppo degli strumenti mi ha fatto pensare che, forse, sarebbe stato felice di avere a disposizione uno Steinway preparato da Fabbrini: si evince dalla scrittura di molti brani.
Questo repertorio è poco suonato anche per la sua estrema scomodità tecnica, con una scrittura affatto idiomatica: è così?
Ci sono difficoltà di vario tipo. La scrittura è cristallina, ricca di polifonia, e contemporaneamente ci sono alte richieste di virtuosisimo, con salti scomodi, ottave scomode riempite con la terza. Usa le tecniche di Liszt e Thalberg (che frequentavano casa sua, e suonavano lì) ma in un modo ancora più particolare e scomodo. È facile “sporcare”, non si possono suonare a prima vista, vanno studiati con cura: la disposizione delle mani è particolare. Qualcosa ricorda Chopin: i 24 Riens, che possono rievocare i 24 Preludi, contengono ogni tipo di difficoltà tecnica, come se fossero degli studi.
Quindi non si possono trovare similitudini tra la scrittura pianistica di Rossini e quella dei suoi contemporanei?
Ci ho pensato molto, ma è difficile. È una produzione “tutta sua”, anche a livello formale, stilistico e armonico: non ci sono rivoluzioni armoniche, ma un uso frequente dell’enarmonia e modulazioni in pochissime battute.
I Péchés coincidono con i quasi 40 anni di silenzio operistico rossiniano. Come te lo spieghi? Una reazione al Romanticismo imperante o una conseguenza della sua privata depressione e ipocondria?
Sicuramente è un insieme di più fattori. La malattia ha influito, ma Rossini è sempre stato un abile calcolatore, fin dai tempi in cui faceva i conti sul gioco d’azzardo nel foyer del San Carlo. Quindi, certo, non riconosceva più le nuove tendenze del teatro d’opera e si era arroccato su sé stesso; poi, con il Tell, pensava di avere raggiunto un culmine della sua produzione. Ma c’è un fattore di calcolo: aveva un contratto in esclusiva con i teatri di Parigi per cui si era impegnato a non scrivere per avere un vitalizio. E certamente questo importava: era un silenzio calcolato, obbligato dalle circostanze, e legato al desiderio di fare musica da camera, mai provata nella sua vita.
A proposito di musica da camera: in questa integrale collabori con tanti musicisti prestigiosi. Ce ne ricordi qualcuno?
Sicuramente almeno Enrico Dindo, Massimo Quarta, Ugo Favaro, e tanti cantanti che ho conosciuto all’Accademia Rossiniana e che ora sono star, come Giuseppina Bridelli, Laura Giordano, Bruno Taddia, Lily Jørstad: è stato bellissimo lavorare con loro in vari organici, spesso con l’Ars Cantica Choir diretto da Marco Berrini. È un Rossini nuovo, non quello dell’opera: sono pagine liederistiche, che dal vivo non si sentono mai.
In concerto a quali altri compositori accosti questi Péchés?
A volte unisco alternatim Rossini a Chopin, e funziona bene; oppure insieme a Debussy e Liszt, perché ci sono brani — come la Marche — che sembrano lisztiani per l’abbondanza di salti e ottave. Altrimenti faccio recital monografici, solo rossiniani.
E infatti al galà ICMA farai un brano chopiniano! Ma se un pianista oggi volesse suonare i Péchés, qual è lo stato dei materiali e delle fonti?
I Péchés sono stati pubblicati dalla Fondazione nei Quaderni Rossiniani, ma sono quasi tutti fuori catalogo, ed è difficile averli; c’è un volume Ricordi con i 24 Riens e poco altro. Io spero, e sto lavorando a questo, che esca un’edizione critica: la Fondazione Rossini potrebbe farla. Il problema è poi che gli spartiti esistenti oggi hanno alcuni errori di stampa e andrebbero tutti rivisti.
Il tuo impegno rossiniano ben si inserisce nella tua carriera, che ha sempre amato cercare le strade meno battute del repertorio…
Vero, mi è sempre piaciuto trovare nuovi autori e nuova musica: è un compito di noi musicisti farlo. Parallelamente a Rossini, in questi anni mi sono occupati di Castelnuovo-Tedesco (di cui ho inciso i Concerti per pianoforte, i lavori per violoncello con Dindo, Evangelion), di Clementi, che non è certo ignoto ma non sempre a livello discografico (e ho inciso il Gradus ad parnassum, finora assente dalla discografia). Ora sto incidendo i Concerti per pianoforte e orchestra di Vittorio Rieti con l’Orchestra Sinfonica di Milano, sempre per Naxos. E questi autori poi li porto anche in concerto, anche se non è sempre facile convincere i direttori artistici a uscire dal repertorio mainstream: con Rossini è sempre un grande successo, ma in genere il riscontro del pubblico è sempre ottimo.
Ultima domanda: il 21 aprile suonerai al galà ICMA a Breslavia. Che rapporto hai con la Polonia?
Ho suonato molte volte in quel Paese, spesso a Cracovia, anche a Danzica, ma più con orchestra che in recital solistico: ho fatto Chopin, Beethoven, ma anche una delle rarità cui accennavo prima, ossia un Concerto di Castelnuovo-Tedesco. E non vedo l’ora di tornarci per il premio!
Nicola Cattò