Cent’anni fa (il 21 aprile 1922) moriva Alessandro Moreschi, l’ultimo dei soprani evirati al servizio della Sistina e l’unico ad averci lasciato una testimonianza registrata della sua vocalità. Abbiamo chiesto di ricordarlo a Carlo Vitali, socio fondatore del Centro Studi Farinelli (Bologna)
Come cantava? È vero che usava spesso i singhiozzi?
Fra il 1902 e il 1904 la Gramophone & Typewriter Company di Londra registrò la sua voce su cilindri di cera: 17 brani di vari stili e autori, da Palestrina, Mozart e Rossini fino a Francesco Paolo Tosti, autore di romanze da camera all’ultima moda. Portamento, glissando, vibrato, singhiozzi e sospiri erano indubbiamente molto utilizzati da Moreschi. Uno stile non troppo attraente per le nostre orecchie; ma quello era lo standard del gusto tardoromantico e verista, allora predominante in tutti i generi di canto sacro e profano. A parte le limitazioni causate dalla primitiva tecnologia del tempo, la registrazione sonora di un cantante castrato resta comunque un documento importante per la sua unicità. Più volte riversate su supporto digitale e poi analogico, quelle tracce si possono oggi ascoltare anche su YouTube.
Abbiamo poi le testimonianze di ascoltatori dal vivo, non sempre concordanti anche se in genere ammirative. Lillie Greenough, moglie dell’ambasciatore danese a Roma, osservò nel 1881: “In ogni nota mette un singhiozzo o un sospiro. Ha cantato la famosa ‘Aria dei Gioielli’ tratta dal Faust di Gounod, ma sembrava terribilmente fuori ruolo. Nel momento in cui, quando interpreta la protagonista, ci si domanda se egli sia davvero Margherita, viene una gran voglia di rispondere — Niente affatto!”. Il musicologo austriaco Franz Haböck, che lo intervistò a lungo nel 1914, lo paragonò per estensione e potenza a un tenore acuto, aggiungendo: “la voce di Moreschi può solo essere paragonata alla chiarezza e purezza del cristallo”. Il celebre tenore Giacomo Lauri Volpi, che lo ascoltò nel 1919, gli attribuisce “una voce flautata, leggera, spontanea, immune da sforzo e lenocinio, come sospinta dal sentimento fatto suono”. A quell’epoca Moreschi aveva già compiuto i 60 anni!
Perché lo chiamavano “Angelo di Roma”?
Si dice che il soprannome gli fosse attribuito nel 1883, quando cantò la parte del Serafino nell’oratorio beethoveniano Christus am Ölberge, naturalmente in traduzione italiana,nella basilica di San Giovanni in Laterano; un grande successo di pubblico che gli propiziò la nomina a soprano della Cappella Sistina. Bisogna però aggiungere che “Angelo” faceva anche parte del suo nome completo di battesimo: Alessandro Nilo Angelo. Forse una coincidenza, o forse no.
Si può dire che è stato considerato, come oggi si direbbe, una star del canto?
Sì e no. All’età di 13 anni Moreschi arriva a Roma dalla sua nativa cittadina di Montecompàtri; nel 1871, quando lo Stato Pontificio ha appena cessato di esistere. Una carriera teatrale era per lui fuori questione, visto che nessun castrato aveva avuto un ruolo importante nell’opera dopo Giovanni Battista Velluti, che cantò nel 1824 nel Crociato in Egitto di Meyerbeer. La formazione del giovane Moreschi fu quella di un soprano di chiesa nella tradizione romana, un settore di nicchia dove la vera star era Domenico Mustafà (1829-1912), che fu anche direttore d’orchestra, organizzatore di stagioni concertistiche e autore di oltre 100 composizioni. Entro questi confini specializzati, Moreschi raggiunse il successo come solista verso il 1880 e restò in carriera fino al pensionamento, avvenuto nel 1913. A quell’epoca era ormai considerato un fossile vivente, l’ultimo dei dinosauri. Il già citato Franz Haböck avrebbe voluto riciclarlo come concertista di opera barocca; ma era ormai troppo tardi per più di un motivo: Moreschi era troppo anziano e non aveva mai praticato lo stile virtuosistico estremo di Farinelli, Senesino e altri celebri castrati dell’epoca d’oro.
Cantava non solo in Vaticano ma anche fuori le mura vaticane?
Moreschi fece parte simultaneamente di entrambe le cappelle musicali ospitate nella basilica di San Pietro in Vaticano: la Sistina e la Giulia; e inoltre della Cappella Pia a San Giovanni in Laterano. Ma era ricercato anche da altre chiese sparse per tutta la città di Roma, come ad esempio quelle di Santa Maria Maggiore, del Sudario, di San Carlo al Corso, di Sant’Ignazio e altre. Si aggiungevano salotti privati come quello di Grace Bristed, una ricca dama newyorkese convertitasi al cattolicesimo, e perfino alberghi di lusso frequentati dal turismo internazionale: ad esempio l’Hotel de Russie in via del Babuino, abituale buen retiro delle teste coronate in visita alla Città Eterna. Tutti questi impegni esterni aumentavano la sua reputazione e i suoi guadagni ma anche le reprimende dei suoi superiori, che li autorizzavano controvoglia perché entravano in conflitto coi suoi doveri istituzionali.
Anche per la dinastia Savoia, teoricamente scomunicata per aver invaso gli Stati Pontifici, Moreschi cantò in occasione della Messa di Requiem per re Umberto I, assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci il 29 giugno 1900. La solenne cerimonia si tenne il 9 agosto al Pantheon; la musica era diretta da Pietro Mascagni e la regia amministrazione ricompensò Moreschi con un orologio d’oro in aggiunta al cachet d’ingaggio.
Perché secondo lei Papa Pio X ha proclamato definitivamente la fine dei castrati in Vaticano?
Il 22 novembre 1903, festa di Santa Cecilia, Pio X emanò il motu proprio “Inter pastoralis officii sollicitudines” dedicato alla riforma della musica liturgica secondo le linee di quel movimento ceciliano (Cäcilienbewegung) che si era sviluppato a partire dal primo Ottocento soprattutto in Germania e in Austria, ma anche in Francia e in Italia. Si voleva riportare la liturgia musicale alla sua purezza spirituale spogliandola di ogni elemento del cosiddetto “stile teatrale” basato sul virtuosismo solistico e l’intervento di rumorose orchestre. Ai compositori viventi si raccomandava di imitare la semplicità della monodia gregoriana e della classica polifonia a cappella, eventualmente accompagnata dall’organo. Nel documento papale non si fa menzione esplicita dei castrati, ma si afferma che: “i cantori hanno in chiesa vero ufficio liturgico e che però le donne, essendo incapaci di tale ufficio, non possono essere ammesse a far parte del Coro o della cappella musicale. Se dunque si vogliono adoperare le voci acute dei soprani e contralti, queste dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo l’uso antichissimo della Chiesa”. Principii che in teoria dovevano valere non solo per Roma ma per tutto il mondo cattolico.
Cosa significava questa decisione per Moreschi?
Nulla di troppo drammatico: Moreschi e i suoi pochi colleghi della Sistina (una mezza dozzina fra soprani e contralti) furono conservati a libro-paga fino alla morte, sempre meno impiegati dal nuovo maestro don Lorenzo Perosi, esponente di punta del movimento ceciliano, ma ancora tollerati nella Cappella Giulia. Semplicemente si cessò di assumerne dei nuovi. L’allievo e successore di Moreschi, Domenico Mancini, era un abile falsettista che imitava i castrati e cantò anche alle esequie ufficiali del maestro, tenutesi nell’aprile 1922 alla chiesa di San Lorenzo in Damaso sotto la direzione dello stesso Perosi e con la partecipazione di numerosi cantori della nuova scuola provenienti dalle principali cappelle romane. Era il pacifico tramonto di una tradizione durata quasi tre secoli e mezzo ma da tempo in decadenza. Fra gli ultimi a rimpiangerla era stato Gioachino Rossini, che secondo la testimonianza di Edmond Michotte avrebbe dichiarato nel 1860 a un allibito Wagner: “In seguito al nuovo regime politico instaurato in Italia dai miei irrequieti compatrioti, le cappelle musicali furono sostituite da qualche conservatorio dove, in materia di buone tradizioni del bel canto non si conserva un bel niente. Quanto ai castrati, scomparvero e si perse l’abitudine di ritagliarne di nuovi. È questa la ragione della decadenza inarrestabile dell’arte del canto”.