MAHLER Sinfonia n. 2 in do minore “Resurrezione” soprano Valentina Farcas contralto Wiebke Lehmkuhl Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai,direttore Fabio Luisi
Torino, Auditorium Rai Arturo Toscanini, 19 ottobre 2022
La serata d’apertura della nuova stagione Rai ha visto protagonista il suo direttore emerito Fabio Luisi alle prese con la Seconda sinfonia di Mahler, detta “Resurrezione”, una scelta presumibilmente anche simbolica considerate le attuali contingenze storiche. Insieme all’Orchestra Rai e al Coro del Teatro Regio di Torino diretto da Andrea Secchi (non s’insisterà mai a sufficienza sul prezioso lavoro svolto dai direttori di coro!) hanno calcato la scena il contralto tedesco Wiebke Lehmkuhl e il soprano rumeno Valentina Farcas; complessivamente, tra orchestrali, coristi, direttore e solisti, sono saliti sul palco quasi duecento musicisti, bilanciati dall’altra parte da un folto pubblico. Il clima, festante, era quello delle grandi occasioni. La sala era gremita, anche di giovani. La grandiosa pagina mahleriana riveste un significato particolare anche per la recente storia della stessa Orchestra Rai, dal momento che venne eseguita al principio del 2006 (con direzione di Raphael Frühbeck de Burgos) in occasione della riapertura dell’Auditorium di via Rossini dopo otto anni di restauri.
Luisi attacca con fermezza e slancio l’Allegro maestoso, primo dei cinque movimenti di cui si compone questa celebre sinfonia, opera dalle proporzioni enormi, sinfonia corale di un coro tuttavia beethovenianamente protagonista soltanto nel movimento conclusivo, che del resto rappresenta il culmine della sinfonia stessa. Sulle prime, talvolta, si ha l’impressione di un fare lievemente nervoso da parte della compagine guidata dal direttore genovese, compagine forse non subito pienamente addentro la situazione di questo primo episodio che è innanzitutto una marcia funebre, la celebrazione di Totenfeier, eroe protagonista della Prima sinfonia: un avvio psicologicamente e drammaturgicamente legato al primo cimento sinfonico mahleriano, ma da cui si schiude un qualcosa di nuovo nella concezione sinfonica del compositore austriaco.
Il secondo movimento è stato talvolta associato al secondo movimento della Sinfonia fantastica di Berlioz, posto che del compositore francese Mahler era ammiratore e (ad esempio) l’appaiamento che ne fece pochi anni or sono Dudamel in occasione di un concerto con la Filarmonica di Vienna ci parve naturale ancor prima che assai degno di interesse. Bene, nei movimenti successivi, le voci soliste, a partire dall’ingresso in scena di Wiebke Lehmkuhl, che ha sfoggiato sonorità profonde e sensibilità proprie di una musicista capace di ascoltare ed entrare in comunione con il suono dell’orchestra in questo episodio bellissimo, quasi da tenero Lied brahmsiano, tant’è che potrebbe quasi rievocare, per dire, la deliziosa quanto densa atmosfera del secondo Geistliches Wiegenlied op. 91. (Piccola postilla: la Lehmkhul ha il buon gusto di rimanere in piedi sino a quando l’orchestra inizia a disegnare ben altro scenario, impedendo in tal modo che il suo sedersi possa disturbare la scena, il ritmo della scena e quindi la musica; anche questo significa stare sul palco, anche questo significa fare musica). Buona anche la prova di Valentina Farcas, soprano rumeno nata come pianista e di formazione vocale tedesca, dalla spiccata musicalità forse ancor prima che dalla vellutata, precisa vocalità. Ma eccoci finalmente giunti all’ultimo, tanto atteso atto della sinfonia, protagonista il coro che può intonare quei versi di Klopstock che tanto parvero adatti a Mahler, quantomeno dopo aver superato il dubbio se un intervento corale finale odorasse eccessivamente di superficiale imitazione di Beethoven. Sonorità vibranti, una buona intonazione (ciò che non è poi così scontato nemmeno in riferimento a compagini corali di grandi enti lirici), una vocalità di grande e riuscito effetto, che ci sembra esprimere bene il contesto di questa sinfonia. Anche l’orchestra offre certamente una buona prova, anzi buonissima, benché talvolta l’impressione che si ricava è che almeno in qualche occasione essa tardi a calarsi nella rappresentazione musicale in cui s’impegna; naturalmente non è semplice esprimersi con nettezza dinanzi a questioni di tal natura, con componenti certo soggettive e a cui siamo qui chiamati a una sintesi. Ad ogni modo una delle difficoltà maggiori nella ricezione di questa musica da parte del grande pubblico risiede, verosimilmente (e nelle sinfonie più tarde di Mahler tale aspetto emerge forse con ancor più nettezza) in una varietà talmente debordante che talvolta la congruità tra i vari elementi che costituiscono la composizione medesima potrebbe non essere adeguatamente percepita; ed è veramente impresa ardua dare giusto rilievo agli episodi più salienti senza far perdere di vista l’unità dell’opera, così come è difficile dare giusto risalto alle singole parti e agli incontri ed impasti sonori tra le varie sezioni, ciò che richiede un virtuosismo notevole da parte del direttore d’orchestra, oltre naturalmente a una frequentazione ben collaudata con la partitura; per il direttore alle prese con pagine come queste il compito non è mai facile e il pubblico, specialmente quello poco avvezzo ai sinfonismo tardo ottocentesco e che magari ha familiarità, poniamo, essenzialmente con la sinfonia classica, è chiamato a uno sforzo certo non da poco. Luisi riesce a dare una propria impronta a questa sinfonia imprimendole una certa direzione e, più in generale, a conferire una certa identità alle orchestre che dirige: questo lo possiamo affermare senza tema di smentita. Recentemente, intervistato proprio per la nostra rivista, il baritono francese Ludovic Tézier ha molto elogiato Luisi quale musicista straordinario, fra i maggiori al mondo, che meriterebbe una carriera ancora più prestigiosa di quella che del resto già porta avanti da molto tempo. Siamo d’accordo.
Chiudiamo con una nota dolente ma che ci sentiamo in dovere di non sottacere. Per il repertorio che richieda l’organo (compresa quindi questa Seconda sinfonia) non è più possibile, da diverso tempo oramai, impiegare l’ottimo organo a canne costruito su progetto di Fernando Germani negli anni Cinquanta. Ed è naturalmente un vero peccato, per non usare che un eufemismo. Ma quale è la ragione? Facciamo parlare Fernando Ruffatti, titolare della ditta padovana che verrà in seguito incaricata del restauro dello strumento e che ha ripercorso la questione in una lettera parzialmente pubblicata sul quotidiano “La Stampa” pochi anni or sono. Scrive tra le altre cose Ruffatti: «al momento del rimontaggio [successivo al restauro] si scoprì che l’architetto aveva completamente sbagliato le misure del posto dell’organo. Per tale ragione la direzione Rai decise che lo strumento fosse depositato in un magazzino… Oggi il grande organo a quattro tastiere e pedaliera, costruito dalla ditta Tamburini su progetto del maestro Fernando Germani, non può più suonare nell’Auditorium Rai». Quindi dal momento che non fu possibile montare lo strumento, lo stesso venne fatto portare in un magazzino della Rai, dove tutt’ora si trova, inutilizzato e non si sa bene in quali condizioni. Tutto ciò dimostra quantomeno l’incompetenza di certi architetti in fatto di acustica e di ambienti sonori e ha avuto come effetto quello di privare il pubblico di uno strumento di prima fattura. Speriamo che prima o poi si possa trovare una soluzione a una situazione che ci lascia francamente sbalorditi.
Marco Testa
Foto: PiùLuce/ OSN Rai