VERDI I Due Foscari V. Stoyanov, S. Pop, M. Katzarava, G. Prestia, F. Marsiglia; Coro del Teatro Regio, Filarmonica Arturo Toscanini, direttore Paolo Arrivabeni regia Leo Muscato scene Andrea Belli costumi Silvia Aymonino
Teatro Regio, 6 ottobre
LISZT 3 Sonetti del Petrarca; Arie da Maria Stuarda, Giovanna d’Arco, I Lombardi alla Prima crociata, Falstaff, Il Corsaro, I Masnadieri CHOPIN Mazurke op. 67 n. 3 e 4 SCHUMANN Arabeske op. 18 soprano Mariella Devia pianoforte Giulio Zappa
Teatro Regio, 9 ottobre
VERDI Luisa Miller R. Zanellato, A. Lagha, V. Pilipenko, G. Sagona, F. Vassallo, F. Dotto; Coro e Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, direttore Roberto Abbado regia Lev Dodin scene e costumi Aleksandr Borovskij luci Damir Ismagilov
Chiesa di San Francesco del Prato, 12 ottobre
Cominciare dal fondo, cioè dall’ultimo spettacolo visto, in questo caso significa partire dal vertice (o dal culmine, come vorrebbe l’immedicabile revisore dell’Attila): la Luisa Miller che ha riaperto agli occhi del mondo la romanica chiesa di San Francesco del Prato — già inglobata nell’ex-carcere di Parma, abbandonata a se stessa e decrepita, a quanto dicono, da un par di secoli e da allora inaccessibile (ebbi l’opportunità di visitarla in seconda media, con la scuola, appariva come un polveroso magazzino di calcinacci e di travi a casaccio gittate; inquietante il gelo di quelle alte e buie volte, la desolazione delle nude, cadenti, mura) — è infatti uno spettacolo di alto livello suggestivo e di abile, intelligente impianto registico. Sfruttando al meglio le sterminate impalcature d’interminabili restauri e la profondità del però strettissimo palcoscenico — luci color miele, forma dell’apparato scenico ligneo che, volendo forse simulare le navate della chiesa, con le arcate, i diversi piani di matronei ed altri corridori, le celle forse per le monache, somigliava a un alveare (dentro, disseminato sui varî piani e seminascosto, il coro, misterioso, inquietante e pur sempre distinto) — il regista Lev Dodin riunisce i personaggi d’una vicenda svuotata dei suoi connotati narrativi per lasciar spazio ai confronti incrociati (e personali) dei diversi caratteri, in quella che il regista vede come una riproduzione dell’eterno conflitto tra il male ed il bene: due aspetti della stessa medaglia, come sosteneva anche certa raffinata teologia medievale; pare essere questo il punto d’incontro con la concezione del direttore Roberto Abbado, dichiaratamente improntata a rivelare il “sottofondo teologico” che il maestro crede di scorgere nella partitura verdiana.
Tutto, scenicamente, si svolge attorno ad un rozzo tavolino che – procedendo l’opera – si avvicina sempre più al proscenio: in più d’una occasione i personaggi non escono di scena, quando previsto dal copione, rimanendo a vista, seppure come in altra dimensione: così, al prim’atto, Luisa e Rodolfo restano ad amoreggiare – in un lungo ma casto abbraccio – sopra quel tavolo a mezzo della scena ove la giovine era appena stata festeggiata da padre ed amiche, mentre, sul davanti si recita l’azione principale: nella quale Wurm insinua il tarlo del sospetto nell’orecchio del vecchio Miller, primo tassello delle tragiche cabale che seguiranno. È come se i piani narrativi si sovrapponessero, a dichiarare la contemporaneità di molti avvenimenti nell’opera osservati in tempi necessariamente diversi, o solamente allusi. È al finale poi che s’esplicita il tutto: il tavolino è ormai a un passo dalla buca d’orchestra ed è allungato in una tavolata degna del banchetto trionfale di Lady Macbeth, pronto ad ospitare i convitati alle ducali nozze tra Federica e Rodolfo. Non posso negare il comico involontario dell’ingresso di Rodolfo il quale, anzi ch’avvelenar la brocca dell’acqua, fa il periplo del tavolone versando il tosco in ciaschedun de’ bicchieri (da vino), con lo scrupolo del perfetto maggiordomo. Ma l’effetto “strage generale”, stile Vespri siciliani, alla fine è molto forte: lo stesso Wurm cade non ferito da Rodolfo, ma suggendo come in un jaghesco trionfo personale dal fatal nappo che nissuno, per dirla verdianamente, gli aveva offerto. La suggestione è forte, anche perché gli invitati a quelle mai celebrate nozze, ben presto presenti in scena, mentre i protagonisti agiscono e muoiono poggiati a due strapuntini del capotavola, se ne stanno intorno alla tavola, silenti ed immoti quali fantasmi (e siamo ancora a Macbeth, “sgomentato da fantasmi”, nello “speco di ladroni” a cui aveva ridotto “quella terra”): eran già morti prima di morire.
Si salva, forse, Federica, che al banchetto si nota un attimo comparire dal fondo – rosso vestita, come venuta a nozze di sangue – e sùbito scompare: ritratta nel chiostro da uno ‘spirto d’averno’, immaginario (ed invisibile) precorritore del Frate/Carlo Quinto nel Don Carlos? — Era pur sempre Schiller. E resta vivo, a meditar sulle disgrazie ed i misfatti suoi (“la pena tua mira!”), il Conte di Walter che – antimefistofelicamente (“… quella forza / che perpetuamente / pensa il Male e fa il Bene”) – pensa il bene (veder “felice e possente” il figlio) e fa il male.
È proprio l’idea di regìa – tanto forte in Dodin — che, invece, è parsa mancare ai Due Foscari inscenati da Leo Muscato: il quale azzecca una scena fissa bella ed efficace a rappresentare il conflitto tra ragion di stato ed affetti privati che affligge i protagonisti della statica vicenda byroniana, ma poi pare navigare a vista, senza riuscire a dare una direzione precisa alla sua regìa (troppo poco il solo insistere sul lato intimistico dei personaggi, senza mettere nel debito risalto anche l’aristocratico orgoglio e l’energia combattiva che essi manifestano con altrettanta evidenza e che nell’opera è, del primo, il contraltare drammatico fondamentale), rinunciando ad agire sugli attori. Solo estemporanee trouvailles, esili e perlopiù poco centrate: ad esempio, dove sta il senso dello scatto rabbioso di Loredano contro Jacopo, incatenato, avvilito e già condannato, proprio nel momento in cui la vendetta ch’egli ha perseguito per tutta l’opera con minuzioso, cinico e freddissimo calcolo è compiuta? Non pare dunque casuale che lo stesso Muscato, negli ‘Appunti per una messa in scena’, si soffermi sulla fissità della scenografia senza nulla aver da dire sulla regìa vera e propria. Se non che suo ideale è “un teatro che metta lo spettatore nella condizione di immaginare quello che non c’è” (corsivo mio): e per meglio stuzzicar l’immaginazione mette in bella mostra il fantasma di Carmagnola, che dovrebbe esser ‘visto’ solo da Jacopo, nel chiuso della sua prigione, e qui invece si fa un bel giro panoramico in carne ed ossa, sotto gli occhi di tutti. Verdi che, due anni dopo i Foscari, si sarebbe tanto ingegnato per trovar soluzione efficace al fantasma di Banquo nel Macbeth, proprio perché l’apparizione di quello non fosse fisica, credo non avrebbe gradito la trovata.
L’intervento più deciso Muscato l’ha fatto, però, non sulla drammaturgia (oggidì non farebbe più notizia) ma sull’orchestrazione stessa della partitura: il povero Jacopo è infatti per tutta l’opera tenuto in catene che vengono ad ogni scena riaperte, cavate dai polsi ed appese alla cinta d’un birro, con sonoro sferragliar d’anelli che si sovrammettono prima al duo di viola e violoncello che introduce tenuamente il quadro della torre, indi al languente refrain del clarinetto, nella scena della sentenza. Hai voglia te a studiar raffinati coloriti orchestrali!
La direzione dei Foscari era affidata a Paolo Arrivabeni che si è posto – sostanzialmente – sulla stessa linea seguita da Abbado per la Miller: quella d’una concertazione attenta soprattutto all’eleganza delle tinte in orchestra. Ma Abbado, in questa circostanza, ci è parso avere un’idea complessiva dell’opera un poco più personale e concreto, rispetto ad Arrivabeni, un tantino corsivo rispetto ad altre – e più fauste – occasioni, non verdiane, nelle quali l’avevamo ascoltato: Abbado dirige una splendida sinfonia, piena di colori e di tensioni, e coglie la centralità drammatica del quartetto a cappella, facendone un momento di grande seduzione (è vero, sono i due passi più ‘tecnici’ dell’opera); Arrivabeni sembra invece scorrere solo superficialmente su uno spartito che si direbbe poco lo appassioni. Entrambi i direttori hanno, poi, un altro punto comune che poco mi seduce: dirigendo sembra che applichino i dettami d’un corso per pompieri, gettando acqua sul fuoco dei brucianti scarti di tensione che son la novità prima delle sanguigne drammaturgie verdiane. Così, però, si resta a Donizetti.
Vero che proprio da lì il Bussetano era partito e che il suo armamentario tecnico seguiva ancora gli stilemi della vocalità donizettiana. Ma fu chiaro da sùbito, agli stessi contemporanei, che Verdi quegli strumenti li scardinava dall’interno, piegandoli ad una forzatura espressiva fino al loro punto di rottura (non scordiamo che Abigaille costò la carriera alla Strepponi), in cerca della ‘verità’ drammatica che il musicista realizzò attraverso una concisione narrativa, talvolta feroce, che non ammetteva orpelli di nessun genere. Tutto questo non può essere ignorato, specialmente in un’esecuzione che abbia pretese d’autenticità. Perché Verdi rimase fedele a questo principio – ricercato fin dai suoi primi saggi teatrali e ben presto individuato – fino all’estremo Falstaff. Uniche e parziali eccezioni trovandosi nell’Aida – che concede alla sua origine celebrativa lungaggini di balletti e parate stile grand opéra – e nell’Otello, ove un forse stanco Verdi subì le zoppìe drammaturgiche e i vezzi linguistici da cicisbeo del Boito che andava ripettinando la sua originaria scapigliatura secondo la moda ordinata e appiccicaticcia dei salotti milanesi.
Ecco, vorremmo che i responsabili artistici e musicali del Festival Verdi meditassero proprio su questo punto: cómpito d’un festival ritengo, infatti, che sia non solo riprodurre nella maniera più fedele possibile la lettera d’uno spartito – d’altronde, per sua stessa natura, mobile; ma indagare e riproporre lo spirito proprio di un autore, aspetto quest’ultimo che, a me sembra, alle produzioni parmigiane ancora manca. Non voglio scomodare l’ennesima volta la memoria di Gianandrea Gavazzeni, che sarà anche stufo d’esser sempre chiamato in causa, ma a Parma ha lavorato a lungo Bruno Bartoletti, che queste cose le sapeva bene, e benissimo sapeva innervarle nella musica. Da lì, bisognerebbe ripartire.
Anche nella scelta dei cantanti. Troppo pochi, infatti, tra quelli ascoltati in queste due occasioni, han mostrato doti sufficienti e mezzi necessarî ad affrontare il canto (che non è più solo ‘vocalità’) verdiano, né sembrarono padroneggiare con lo sbalzo e la sicurezza dovuti il senso della ‘parola scenica’: non è solo questione di caratura vocale. Nessuno merita d’essere recisamente stroncato, ma di quegli artisti soltanto Franco Vassallo e l’autorevole Loredano di Prestia (pur ormai vocalmente ossidato, ma il quartetto del second’atto l’hanno retto da soli lui — impressionante quando tuona «obbedire alle leggi si de’» — e la ‘canna’ del soprano Katzarava, qui dominatrice ma, nel resto dell’opera troppo onninamente vociante) fecero mostra d’un fraseggio realmente ‘verdiano’: si vuol dire energicamente costruito sulla parola ed articolato con dizione scandita eppur pieghevole ai colori ed agli involi dell’arcata musicale. Facile a dirsi, ma se non ci si prova nemmeno si resta – come detto — a Donizetti.
Agli altri cantanti va il merito di alcune frasi emozionanti, di certi momenti ben centrati e suggestivi (Stefan Pop per la commossa implorazione di Jacopo al padre dopo la sentenza, Vladimir Stoyanov per il vigoroso finale dell’opera veneziana, spauracchio d’ogni baritono, Francesca Dotto per l’intenso, magnifico, terz’atto della Luisa, dopo i primi due però anodini, il simpatico tenore tunisino Amadi Lagha per la bella mezzavoce nell’aria di Rodolfo e per la ricerca, talora andata a buon fine, d’uno squillo quasi laurivolpesco), ma nella più generale sensazione di inadeguatezza, o non sufficiente pertinenza, ai rispettivi ruoli. M’è parso, invece, un poco fuori fase Riccardo Zanellato, che sulla carta avrebbe avuto le patenti giuste per tratteggiare un Conte Walter di ben altro spessore che il personaggio sbiadito, vocalmente e scenicamente, che l’insigne basso s’è contentato di abbozzare: forse una cattiva intesa col regista? A tratti se ne aveva un poco l’impressione.
Nel mezzo tra le due opere, abbiamo ascoltato il concerto di Mariella Devia, altra cantante mai stata, nemmeno lei, propriamente ‘verdiana’: pochi ruoli di secondaria importanza (Nannetta, Gilda, oltre un a Oscar giovanile del quale pare essersi lei stessa dimenticata, a prender alla lettera l’affermazione d’una intervista, nella quale dice esser stato il pergolesiano Farnaspe il suo unico ruolo en travesti), fino a Violetta e Giovanna d’Arco, aggiunte solo ad un tornante avanzato della carriera. Ma con la signora Devia siamo su un altro pianeta, dove il canto è davvero arte e l’artista un inventore geniale e sbalorditivo. Eppure, in questo caso, d’una serietà professionale senza orpelli, che muovono ad ammirazione più che a fanatici delirî, da sempre il sale della passione operistica.
Inutile tornare a dilungarsi sulla sublime fusione di pietas e d’eroica fermezza nella, d’altronde celeberrima, Maria Stuarda della Devia, intelligentemente accostata, nel concerto, a Giovanna d’Arco, nella quale i due caratteri si trovano perfettamente replicati, con un meno di regalità e un più di concreto vigore: l’orgoglio della Stuarda è simbolico, quello di Giovanna è orgoglio realistico di guerriera. Preferisco, dunque, soffermarmi su due estratti esemplari del programma: l’aria di Nannetta “Sul fil d’un soffio etesio”, che la Devia decontestualizza nell’espressione, trasformando la fanciullesca canzonetta in un trasognato, maturo e in sé perfetto Mondlied, nel quale la vaghezza infantile si fa materia, metamorfizzando il latteo alone lunare in un inno all’amore quale valore assoluto e senza età. E poi i tre Sonetti del Petrarca nella restituzione lisztiana che, traverso l’arte della Devia, perdono un poco dell’émpito melodrammatico — conferito loro soprattutto dai tenori, stimolati a pirotecniche esibizioni dalle frequenti scalate del pentagramma di cui quei canti son disseminati –, per ritrovarsi restituiti alla loro originaria dimensione poetica: veri e proprî ‘sonetti’ quasi trobadoricamente intonati, nei quali la cantatrice ligure porta l’arte della parola ad espressione suprema, delibata nelle minime inflessioni, ricolma di colori, impreziosita delle sfumature più varie, ma sempre innervata su un canto che non cede mai la sua vertigine foriera d’emozioni.
Il pianista Giulio Zappa partecipò non distrattamente alla interpretazione dei gioielli lisztiani, accompagnando con un sempre vivo senso del rubato e con preludi e postludi mantenuti su una linea di forte espressività, veri duetti di voce e pianoforte, come si confà ad opere di un Liszt. E pure i suoi assoli (due Mazurke di Chopin in fila e l’Arabeske di Schumann) furon ben altro dai soliti ‘intermezzi [che] fan morir di noia’, mali necessarî per far rifiatare il cantante. Anzi, l’Arabeske è stata una delle più interessanti che mi sia capitato d’ascoltare: mi chiedo quali fantasmi vi abbia visto il pianista milanese, che la suona con tocco incisivo ben affondato sui tasti, un colore sempre un poco grigio e l’espressione grifagna: altro che il decorativismo flou dei rabeschi! Non sarà stata un’esecuzione particolarmente seducente, ma certo inquietante (schumannianamente inquietante), singolare e tra le più originali ch’io ricordi, proprio per la stretta aderenza ai turbamenti mentali dell’autore.
Bernardo Pieri