DONIZETTI L’elisir d’amore R. Barbera, R. Feola, M. Cavalletti, A. Maestri, F.P. Vitale; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Michele Gamba regia Grischa Asagaroff scene e costumi Tullio Pericoli
Milano, Teatro alla Scala, 10 settembre 2019
Settembre: per la Scala non è tempo di migrare, ma di ripescare vecchi spettacoli. Dopo il Rigoletto leonucciano su cui — come ha scritto il collega Alberto Mattioli — anch’io esercito obiezione di coscienza, ecco riapparire questo Elisir con le scene ed i costumi di Tullio Pericoli, che a Milano si vedono dal 1998 (con l’intervallo del 2010, quando sbarcò lo spettacolo di Laurent Pelly), e su cui non c’è più niente da dire, se non per sottolineare come la loro candida, intatta poesia non sia affatto ben gestita da una regia — quella di Grischa Asagaroff — di fatto inesistente, tra gag vecchie come il cucco, movimenti che qualsiasi cantante avrebbe realizzato anche autonomamente, e tratti da avanspettacolo su cui sarebbe bello tacere (come lo sgambettare del finale primo, che sa tanto di passerella di una rivista con la Wandissima). A molti piace, questa sorta di non-teatro: a me fa sbadigliare.
Ma onestamente a questo Elisir si andava per la curiosità di ascoltare Michele Gamba, 36enne milanese assistente di Pappano e Barenboim già protagonista, alla Scala, di un rocambolesco salvataggio di una recita dei Due Foscari e di qualche serata con le Nozze di Figaro: il primo, enorme problema del suo approccio all’Elisir è stata la scelta (sua o di altri?) di una versione tagliatissima, esattamente come negli anni ’50, senza i da capo (tranne, curiosamente, quello del duetto Adina-Dulcamara e parzialmente della cabaletta di Adina) e con tutti gli sfrondamenti nelle code (persino nel Finalino ultimo!). Davvero non ci si capacità di come nel 2019 un direttore giovane e di indubbio talento possa compiere una scelta così musicalmente insensata e antistorica; per il resto, al di là di una bella chiarezza di concertazione che portava alla luce dettagli strumentali inediti, Gamba è sembrato puntare su un brio quasi costante, che però, nell’assenza di elasticità e di morbidezza, minava fortemente la dimensione umana e demi-caractère della formidabile partitura. E i punti meno riusciti, in tal senso, erano sia il grande concertato del primo atto (il momento più vicino all’opera seria, per forma e valore drammaturgico) che la scena di Nemorino con le ragazze, nel secondo atto, di una meccanicità davvero poco condivisibile. In recenti interviste, Gamba sottolinea di trovarsi maggiormente a proprio agio col repertorio tedesco: gli auguriamo di trovare uguale confidenza anche con quello italiano, perché le doti sono evidenti.
Rosa Feola e René Barbera, Adina e Nemorino, erano una coppia assai ben assortita: il tenore americano non ha una voce baciata dagli dei, e per lui la tessitura è un tantino bassa, ma canta con gusto, fraseggia con eleganza e pare naturalmente adatto al personaggio, fino ad una furtiva lagrima di immediata efficacia; la Feola, similmente, è una cantante di ottimo livello, la cui voce, non grande, passa molto bene in sala, specie negli acuti, e la sua Adina, dolce e sottilmente pepata, si iscrive nella migliore tradizione italiana del ruolo. Meno convincenti, invece, sia Massimo Cavalletti, la cui ottima, recente prova nei Masnadieri mi fa supporre che Belcore, pur cantato con discreti risultati, non sia più un ruolo a lui adatto, che Ambrogio Maestri, che non riesce mai a convincermi a fondo: il suo canto ha sempre un che di naturale (per non dire di rozzo) e, al di là di una innegabile simpatia, i suoi personaggi sono più o meno intercambiabili. Perfetta, per contro, la Giannetta di Francesca Pia Vitale.
Nicola Cattò