
BEETHOVEN Sonata n. 27 in mi min. op. 90 SCHÖNBERG Drei Klavierstücke op. 11 KURTÁG Márta ligaturája SCHUBERT Sonata in si bem. magg. D 960 pianoforte Mitsuko Uchida
Milano, Teatro alla Scala, 9 marzo 2025
Secondo concerto con un programma mitteleuropeo, quello proposto da Mitsuko Uchida per la serie dei Grandi Pianisti alla Scala. Dove la Mitteleuropa è vista come fucina di novità e cambiamenti radicali sia nelle strutture formali che caratterizzano la letteratura pianistica che per la scrittura musicale in senso lato. Se non fosse stato già di suo impegnativo, si sarebbe potuto chiedere ad incipit una Sonata di Haydn, a completamento di quel percorso che, attraverso Beethoven e Schubert conduce alle radicalizzazioni di Schönberg e alle riflessioni ascetiche di Kurtág.
Il pianismo di Mitsuko Uchida è sin dalle prime battute deciso nella direzione della pulizia di suono, leggerezza nel timbro, ricerca dei pianissimi e nel consegnare una visione introspettiva di quanto veniva eseguito. Così da offrire una lettura si direbbe prudente della Sonata in mi minore di Beethoven, più vicina allo scivolare di sviluppo in sviluppo tipico di Schubert che allo scontro tra temi proprio del musicista tedesco. Un Beethoven visto a posteriori, dove sono messi in luce i prodromi che avrebbero condotto alle sue ultime pagine cameristiche e non solo.
I Drei Klavierstücke di Schönberg si confermano pagine di ardita scrittura, dove la resa di tutte le capillari indicazioni del compositore è già di suo problematica e al limite, talvolta, dell’eseguibilità. L’avvicendarsi di particelle di frasi che coprono con pochissime note un paio di battute, ad altrettante costipate da uno sfarfallare di note con dinamiche che vanno dal fortissimo accentato al pianissimo impalpabile, non rendono l’idea di quanto sia complessa la resa artistica di questa decina di minuti di musica. Sono densissimi condensati di un pensiero musicale che rappresenta lo sforzo nel costruire una nuova mentalità artistica in un’epoca che andava sgretolando non solo duecento anni di arte musicale, ma anche di storia europea. In tale direzione si situa l’esecuzione proposta, dove emergono i valori delle pause, i silenzi, lo squarcio improvviso dei suoni, i pianissimi in una costante angoscia culminante nell’ultimo dei tre pezzi.
L’epitaffio di Márta ligaturája conduce in una dimensione ultraterrena: dedicato al ricordo della moglie scomparsa pochi anni or sono, descrive in pochi tocchi una creatura angelica dispensatrice di pace. E senza sosta l’attacco dell’ultima sonata di Schubert ha mantenuto il clima sospeso del brano di Kurtág, dove Mitsuko Uchida ha saputo offrire un legato e un controllo raffinatissimo della tastiera che hanno connotato tutta la sua visione schubertiana: un silenzioso e cupo ritorno su sé stessi in dimensioni lontane dalle quali si torna sempre al punto di origine. Non c’è scampo nell’ottica della pianista giapponese, nemmeno nell’ultimo movimento. Una visione così estrema e drastica ha suscitato perplessità all’ascolto, come è naturale, ma non lascia indifferenti.
Rimane il dubbio, al termine dell’ascolto, circa alcuni momenti, brevi ma evidenti, nei quali si è avuta l’impressione che il discorso musicale sfuggisse dalla volontà dell’interprete e torna l’interrogativo di quanto possa essere utile farsi accompagnare dalla lettura dello spartito in alcuni frangenti della propria carriera, soprattutto se l’atto esecutivo è disturbato, come purtroppo accaduto nella serata di domenica 9 marzo, da persistenti colpi di tosse, starnuti e porte sbattute in modo così evidente da ritardare un paio di volte gli attacchi dei singoli movimenti in attesa di un silenzio più prolungato.
Fastidio trasmesso al pubblico dalla stessa Uchida al termine, nel raccogliere gli applausi e nel negare un bis, rendendo evidente con gesto raffinato ma deciso, che il motivo era dato proprio dagli eccessi sopportati durante la serata.
Emanuele Amoroso