KURTÁG Samuel Beckett: Fin de partie, scènes et monologues L. Cortellazzi, H. Summers, F. Olsen, L. Melrose; Orchestra del Teatro alla Scala, direttore Markus Stenz regia Pierre Audi scene e costumi Christof Hetzer
Milano, Teatro alla Scala, 22 novembre 2018
«Ma, alla fine, il protagonista muore?». Così mi domandava un’anziana habituée della Scala al termine della rappresentazione della novità di György Kurtág, attendendosi da me una risoluzione dell’enigma. Subito mi sono trovato a pensare a quello che Edward W. Said dichiara nel suo ultimo, incompiuto libro Sullo stile tardo: «non ammette le cadenze definitive della morte». In questo senso la composizione di Kurtág avrebbe potuto essere inclusa nell’elenco di lavori tardi compilato dallo scrittore palestinese. Altra ragione per cui Said avrebbe potuto interessarsi ad essa in quanto espressione di «tardività» è il dato biografico di un compositore che lavora alla sua prima partitura d’opera tra gli 84 e i 91 anni e, dopo ripensamenti, la presenta al pubblico dichiarandola «non definitiva». Chi conosce la scrupolosità di Kurtág come compositore, interprete e didatta può ben comprendere le ragioni della lunga gestazione nel tradurre in drammaturgia musicale il complesso capolavoro di Samuel Beckett. Un testo in cui ogni parola è essenziale per la vita del tutto non può essere preso alla leggiera ed ogni scelta che implichi una rinuncia rischia di tradursi in una mutilazione. Il titolo dato da Kurtág all’atto unico, Samuel Beckett: Fin de partie, scènes et monologues, e la deliberata separazione delle sue diverse scene sul palcoscenico sono in questo senso chiarificatori: ciò che si offre al pubblico è una lettura di Beckett e specificatamente di alcune sezioni di Fin de partie. Che cosa ci dice Kurtág di Beckett e della sua pièce del 1957? In primis, che i numerosi temi trattati dialetticamente dallo scrittore sono tuttora attuali: i rapporti incrinati tra giovani e vecchi, la mutua dipendenza di oppressori e oppressi, l’emarginazione del femminile, l’anelito ad un pristino stato naturale e la progressiva concreta distruzione della natura, l’abitudine come stato di alienazione e rassegnazione, i ruoli dell’arte e della religione nella vita dell’uomo e il loro presunto o auspicato portato di verità, la memoria e la sua perdita, il fantasticare e alcune forme di gioco, ironia e sarcasmo come mascheramenti consolatori del vuoto esistenziale. In secondo luogo, che l’affascinante gioco di simmetrie narrative, rimandi testuali e permutazioni di parole possono trovare eco in un raffinato e sensibile lettore ed essere forieri di ulteriori giochi di rifrazione nella memoria creatrice. Kurtág librettista rispetta l’integrità dei frammenti tratti da Fin de partie, operando solo alcune aggiunte (come sporadici commentari o come testi «apocrifi») a chiarificazione della complessa rete di allusioni ad autori come Baudelaire, Joyce e Shakespeare che si trovano nel testo. Tra queste, le più significative sono l’utilizzo della ipnotica e circolare poesia di Beckett Roundelay come seconda parte del Prologo all’opera, chiave interpretativa di tutta la composizione, e l’unica frase enigmaticamente cantata nel silenzio dell’orchestra in cui Hamm, tragico carattere dominatore dell’opera, vanta una discendenza diretta dal Prospero di Shakespeare.
Il Kurtág compositore è altrettanto riguardoso nei confronti del testo, ricercando formule vocali e strumentali che sottolineino i valori prosodici ed espressivi delle singole parole (incluse le onomatopee di sbadigli e risate) e aprendosi coraggiosamente all’ascoltatore per introdurlo in quello che sembra essere il suo intimo dialogo interiore. Una pratica compositiva che, mirando ad avvolgere dolcemente con il suono orchestrale quello che è primariamente un parlato, pone in evidenzia le tessiture gravi, le percussioni e strumenti dalla forte identità etnica ma non consueti nei teatri d’opera come il cymbalon ungherese e il bayan (la fisarmonica). Con queste scelte di strumentazione la ricerca timbrica di Kurtág fa venire in mente un seminario tenuto da Carmelo Bene alla Sapienza nel 1984 in cui l’attore teorizzava la necessità di un’ampia gamma espressiva all’interno di una ristretta fascia tonale. Bene parlava di una «fascia monotona e maniacale» nell’accezione greca del termine e ciò sembra descrivere quello che prova chi segue il dialogo di Kurtág con Beckett e la propria memoria. Com’è nelle consuetudini del compositore, le allusioni stilistiche a diversi repertori e generi musicali sono frequenti e mai casuali ma quella che rimane più impressa è la citazione di un breve tema inedito in apertura del Prologo (dopo lo stacco iniziale con una serie dodecafonica e la successiva, eterea, apparizione di un arpeggio di La bemolle maggiore – quasi a voler sottolineare l’ecumenismo antidogmatico dell’autore). Scritto da Kurtág a vent’anni e rassomigliante ad una nota canzone italiana, riappare interamente o parzialmente sotto diverse vesti armoniche in varie occasioni, contribuendo al tono trasognato di uno dei momenti più poetici dell’opera, affianco a Roundelay e al finale: il dialogo dei vecchi genitori di Hamm, Nell e Nagg che, privi di gambe a causa di un incidente e relegati in bidoni della spazzatura, si ricordano del passato e riescono ad amare, e quindi essere umani, nonostante le condizioni abbiette in cui si trovano.
La regia di Pierre Audi è inappuntabile e, considerato il lungo lavoro svolto sotto la supervisione di Kurtág, le prove di tutti gli interpreti vocali e dell’Orchestra del Teatro alla Scala, concertati dalla sicura quanto energica bacchetta di Markus Stenz, non potrebbero essere migliori. Le scene e i costumi di Christof Hetzer si fanno apprezzare per l’essenzialità e l’idea di Audi, di una casa incastonata in due sovrapposte sezioni di case che ad ogni cambio di scena viene presentata da un lato diverso per poi ritornare alla posizione di partenza, è attraente e, considerate le esigenze spettacolari di una rappresentazione operistica, funzionale, anche se ci si domanda come sarebbe stata la più semplice ma altamente simbolica scenografia indicata da Beckett: una claustrofobica stanza con due finestre sul fondo (che Adorno individua come l’interno della soggettività di Hamm). Per Audi si trattava di rendere presente «una scena della pièce che Kurtág non ha ancora messo in musica», segno di intempestività ed incompiutezza che avrebbe sicuramente attratto Said e che ha spinto la mia interlocutrice melomane a dire: «beh, se la vuole completare quest’opera, dovrà darsi una mossa!». Nella sua saggezza, la signora mi ha anche fatto notare che un atto unico che dura più di due ore non va incontro alle necessità più basilari del pubblico e che «con una sforbiciata di mezz’ora ci avrebbe guadagnato in forza drammaturgica». Said le avrebbe probabilmente risposto che la «grassezza» di questa opera tarda non è «fatta di armonia e risoluzione, ma di intransigenza, difficoltà e contraddizioni irrisolte» ma temo che ciò non avrebbe soddisfatto la signora.
Francesco Parrino
(Foto: Ruth Walz)
La recensione della prima assoluta del 15 novembre apparirà, a firma di Giorgio Rampone, su MUSICA di dicembre-gennaio.