KORNGOLD Die tote Stadt K.F. Vogt, A. Grigorian, M. Werba, C. Damian; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Alan Gilbert regia Graham Vick scene e costumi Stuart Nunn
Milano, Teatro alla Scala, 14 giugno 2019
A pochi artisti nella storia si addice l’appellativo di enfant prodige come a Korngold, che con quello forse più grande di tutti condivide il middle name, Wolfgang: pianista talentuoso, compositore a soli undici anni del balletto pantomimico Der Schneemann, pupillo della aristocrazia viennese, e certamente sostenuto dal padre Julius, potentissimo critico musicale della “Neue freie Presse” (in un certo senso, il successore di Hanslick), seppe guadagnarsi il primo grande successo teatrale nel 1916, a soli 19 anni, col dittico Violanta – Der Ring des Polykrates. Seguirono poi la Città morta (1920) e Das Wunder der Heliane (1927), dall’autore considerata il proprio capolavoro ma che, in realtà, ottenne molto meno successo dell’opera rappresentata ora alla Scala (ed era la prima volta che accadeva), tratta dal romanzo di Georges Rodenbach Bruges la morte. Con l’avvento del nazismo, Korngold emigrò negli Stati Uniti, diventando un importante compositore di colonne sonore per Hollywood (sviluppando, grazie anche al sodalizio con Max Reinhardt, premesse stilistiche che a me paiono evidenti già nel terzo atto della Heliane) e un tardivo ritorno in Austria negli anni ’50 non servì altro che a fargli capire che il “suo” vecchio mondo, quello che gli aveva tributato onori secondi, forse, al solo Richard Strauss, non esisteva più. E torno quindi a morire in quegli Stati Uniti che già nel 1943 lo avevano fatto proprio cittadino.
Presentando il capolavoro teatrale di Korngold, la Scala ha centrato uno dei maggiori successi della stagione, secondo forse solo alla Chovanscina: non tutto era ideale, o perfetto, ma era tale la forza emotiva e la persuasione — per così dire — esercitata sul pubblico, che non sembrava neanche necessario riflettere su come la direzione di Alan Gilbert mancasse qua e là di elasticità ritmica, o fosse deficitaria nel ricreare quel colore viennese, quasi operettistico che scorre in sottofondo, nei valzer che non sono altro che il «sogno di un valzer», fra Oscar Straus e Ravel. No, perché intanto si era impegnati ad ammirarne il gesto chiaro e preciso, che spronava un’orchestra scaligera in gran forma, intonata e lucida, senza che mai il pur nutrito organico giungesse a coprire le voci: e soprattutto si era impegnati a farsi soggiogare dalla caratterizzazione indimenticabile della Marie-Marietta di Asmik Grigorian e anche del Paul di Klaus Florian Vogt. Partiamo da quest’ultimo: la sua emissione singolare, che ricorre con troppa frequenza ai suoni di testa dal passaggio in su (quasi impossibile per lui il Si bemolle in fortissimo di “Gib’ sie mir zurück”) , e che ha un biancore talora sgradevole, lo rende non sempre efficace nei personaggi wagneriani (Lohengrin e Walther su tutti) che sono il cuore del suo repertorio. Ma nell’opera di Korngold, Vogt mostra un’intensità di fraseggio davvero singolare, che sa sfruttare anche i difetti vocali a fini espressivi, con una sottigliezza e una specie di senso di decadente passività che contrastano a meraviglia con la personalità della Grigorian: e la scena finale (uno dei momenti più alti dello spettacolo di Vick, con la scena che rimane totalmente nuda, a simboleggiare il dovere venire a patti con la realtà di Paul, la fine delle illusioni) è, grazie alle sue mezzevoci nella ripresa della celebre melodia di “Glück, das mir verblieb”, davvero indimenticabile.
Asmik Grigorian è un fenomeno: da quando appare in scena, nessuno riesce a staccare gli occhi da questa donna che trasuda carisma, sex appeal, personalità, presenza scenica (quella danza finale, con i capelli di Marie in mano, novella Salome con la testa del Battista…). E che canta in maniera egregia, fino agli estremi acuti dominati con spavalda sicurezza e con una ricchezza dinamica non comune. C’è poco da dire: in una parte difficile, ha soggiogato il teatro, consacrandosi come una delle maggiori personalità dell’odierna scena operistica, quelle per cui è impossibile scindere il canto dalla creazione totale del personaggio. E che, nel torrido duetto del second’atto, Vogt sia, se non del suo livello, quantomeno paragonabile, è lode che non saprei immaginare maggiore.
Markus Werba, un habitué scaligero, canta bene ma nel suo stupendo Lied manca un po’ di quella generosa espansione vocale che ha reso indimenticabile le incisioni di Hermann Prey, mentre lo spettacolo di Graham Vick non convince fino in fondo (al di là della scena finale, prima ricordata). Fare piazza pulita di tutto il “decadente” legato alla musica, e al clima culturale dell’opera, è possibile solo con la spietata lucidità mostrata da Robert Carsen nella sua produzione alla Komische Oper dell’anno scorso (è disponibile su YouTube), ma se si indugia — come fa Vick — al solito cascame kitsch di nazisti e Hitlerjugend, di riferimenti anticlericali, di simbologie di non evidente comprensione, non si capisce più cosa voglia dire per il regista la Città morta. E non si può evitare la sensazione di uno spettacolo realizzato sì da un grande regista, ma in evidente difetto di idee. Càpita anche ai migliori. La Scala, pur non certo piena, ha decretato un trionfo allo spettacolo in questa penultima replica, così come era successo dalla prima recita in poi.
Nicola Cattò
Foto: Brescia e Amisano / Teatro alla Scala