BACH L’Arte della Fuga viola D. Motta violoncello M. Valli organo S. Demicheli violini A. Tampieri, A.L. Ojeda Accademia Bizantina, clavicembalo e direzione Ottavio Dantone
BRAHMS Quartetto per pianoforte n. 1 op. 25; Quartetto per pianoforte op. 26 KURTÁG Jelek per viola sola, Jelek per violoncello solo, Tre Pezzi per violino e pianoforte op. 14. Trio di Parma (pianoforte Alberto Miodini violino Ivan Rabaglia violoncello Enrico Bronzi) viola Simonide Braconi
Stagione dell’Accademia Filarmonica Romana, 17-24 gennaio, Teatro Argentina
L’Accademia Filarmonica Romana ha una vasta stagione 2018-2019 che, iniziata in ottobre 2018 con il ‘debutto’ (sic!) a Roma del Ritorno d’Ulisse in Patria di Claudio Monteverdi (una produzione che diversi critici musicali della capitale ritengono meritevole del Premio Abbiati) si estende sino al 25 maggio 2019 in vari cicli, che spaziano dall’opera, al balletto, alla musica contemporanea, alla sinfonica, agli spettacoli per bambini, alla formazione del pubblico. L’Accademia usa tre spazi: il grande Teatro Olimpico (2000 posti), la graziosa Sala Casella (250 posti) nei giardini dell’istituzione e, in collaborazione con il Teatro di Roma, quel gioiello del Teatro Argentina (700 posti), decantato da Stendhal, nel suo Viaggio in Italia come, all’epoca, il più elegante al mondo. Ciò le consente notevole flessibilità. Il filo conduttore della stagione è una frase di Gustav Mahler: tradizione non è culto delle ceneri ma custodia del fuoco, ad indicare che l’Accademia Filarmonica è un luogo aperto dove il fuoco della musica si mantiene vivo con proposte di spessore.
Al Teatro Argentina si svolge un ciclo di dieci concerti di musica da camera. Ho ascoltato i primi due, dedicati il primo a Bach, il secondo a Brahms e Kurtág.
Nel primo, una delle formazioni più accreditate da oltre trent’anni nel panorama della musica antica e barocca – l’Accademia Bizantina diretta da Ottavio Dantone – ha inaugurato il ciclo eseguendo uno dei monumenti della storia della musica: L’Arte della Fuga di Bach. Destinata alla Società di Scienze Musicali fondata da Lorenz Christoph Mizler sul modello delle società scientifiche che allora nascevano in tutta Europa, Die Kunst der Fuge (L’arte della fuga) rimase incompiuta per il sopraggiungere della morte di Bach avvenuta nel 1750. Composta tra il 1747 e il 1749 su un unico tema e senza indicazioni di strumenti, comprende, per la parte ritenuta autentica, tredici Contrapuncti, due Fughe e quattro Canoni, costituenti il culmine di virtuosismo polifonico nelle sue forme musicali più alte, nonché perfetto equilibrio fra rigore e fantasia poche altre volte raggiunto nella storia della musica. Proprio per la sua incompiutezza, L’Arte della Fuga è stata sottoposta da musicologi ed esecutori a varie rielaborazioni, offrendo chiavi di lettura diverse, ma sempre ugualmente significative, grazie proprio alla natura “aperta” della scrittura bachiana. Secondo alcuni, il lavoro era destinato agli studenti di Bach che avrebbero dovuto completarlo e strumentarlo. L’Accademia Bizantina si presenta con sei musicisti (la loro versione è da un anno disponibile anche in un prezioso CD Decca, registrato nel Teatro Goldoni di Bagnacavallo): oltre a Ottavio Dantone (cembalo e direzione), vede coinvolti Alessandro Tampieri e Ana Liz Ojeda (violini), Diego Mecca (viola), Mauro Valli (violoncello) e Stefano Demicheli (organo). La loro lettura mira a comunicare il più possibile il significato sia formale che espressivo di quest’opera. Bach non ha lasciato precise indicazioni strumentali ed il lavoro viene eseguito da solisti, complessi cameristici ed anche piccole orchestre sinfoniche. L’Accademia Bizantina utilizza un quartetto d’archi, un organo e un clavicembalo per vestire con più colori possibili la musica di Bach. Nelle maglie dei contrappunti si mettono i rilievo i piaceri, le emozioni ed i colori sfumati del barocco rigoroso, e privo di orpelli, degli ultimi lavori di Bach.
Il programma del secondo concerto era molto intrigante, in quanto accostava due compositori molto distanti nel tempo, nella cultura e nella sintassi musicale, György Kurtág and Johannes Brahms. Del primo venivano eseguiti brevi, anzi brevissimi, lavori degli ultimi anni del secolo scorso. Del secondo, invece, due noti quartetti per piano ed archi (il primo ed il secondo) della metà dell’Ottocento, quando l’allor trentenne Brahms era molto vicino a Schumann e a Schubert – ossia in piena “esplosione” romantica. I due brami di Brahms sono molto noti e non richiedono presentazione. Gli Jelek di Kurtág sono brevissime composizioni della raccolta Segni, Giochi e Messaggi, iniziata nel 1987 ed ancora in progress; raccolgono impressioni momentanee, pensieri dedicati agli amici, scenette umoristiche tra strumenti. I Tre Pezzi per Violino e Pianoforte hanno, nella loro brevità, un profondo significati politico: basati su una raccolta di poesie, esprimono la sofferenza dei popoli sottomessi all’egemonia sovietica. Tanto i primi quanto i secondi appaiono come molto distanti dal romanticismo prorompente dei due quartetti di Brahms.
Il Trio di Parma e Braconi sono riusciti a declinarli molto bene. Nella prima parte della serata, gli Jelek, densi di richiami alla musica folcloristica magiara e con momenti tenebrosi (in memoria di amici defunti, ricordi di ombre) sono scivolati quasi naturalmente nel primo movimento – un Allegro in cui un pianoforte introverso dialoga prima con il violoncello e poi con il resto degli archi. Il quarto movimento, poi, — Rondò alla Zingaresca- è uno spettacolare omaggio alla musica magiara. Nel secondo tempo, i Tre Pezzi per Violino e Pianoforte fanno da introduzione sobria e triste al più lungo (quasi un’ora), più complesso e più “schubertiano” (se si vuole) dei quartetti di Brahms, quasi una sinfonia, denso di colori e profumi notturni.
Operazione, quindi, riuscitissima e salutata da applausi (nonostante il pubblico non fosse numeroso, a causa di una serata glaciale e ventosa). Agli applausi, i musicisti hanno risposto eseguendo l’Andante del Quartetto n. 3 di Brahms.
Giuseppe Pennisi