FACCIO Amleto A. Villari, D. Salerno, F. Leone, A. Abis, S. Fiore, G. Fiume, M. Torbidoni, A. Rosalen, F. Pittari; Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona, direttore Giuseppe Grazioli regia Paolo Valerio scene e proiezioni Ezio Antonelli costumi Silvia Bonetti
Verona, Teatro Filarmonico, 22 ottobre 2023
Preceduto da un’interessante e utile tavola rotonda la mattina stessa della prima rappresentazione in quel gioiello che è Palazzo Maffei, in Piazza delle Erbe, è finalmente andato in scena al Filarmonico di Verona uno dei titoli più attesi dagli appassionati d’opera: quell’Amleto di Franco Faccio che era stato già programmato per il 2020 e poi annullato per la pandemia. Scommessa coraggiosa, da parte della Fondazione scaligera: un titolo che, dopo la prima esecuzione del 1865 a Genova e la ripresa, ampiamente modificata, alla Scala nel 1871, non aveva più conosciuto le scene fino a pochi anni fa, grazie al direttore d’orchestra americano Anthony Barrese, che ha realizzato l’edizione critica della partitura, poi usata per una esecuzione americana da lui e diretta e per le recite a Bregenz del 2016, poi finite in CD e DVD per Naxos (vedi recensione sul numero 314). Frutto giovanile e tipico — il più tipico, forse — della Scapigliatura milanese, firmato dal duo Faccio/Boito poco più che ventenni, rappresenta un tentativo forse unico nella storia dell’opera italiana, perché affronta direttamente un tema centrale della drammaturgia scespiriana (e che tanto affascinò anche Verdi il quale, viceversa, come è noto si fermo prima di darne una propria versione col Re Lear), ossia la compresenza di alto e basso, sublime e grottesco, comico e tragico. Tutta la scena del funerale di Ofelia, con il contrasto tra la grande marcia funebre e lo sboccato canto dei becchini; la scena iniziale, in cui il Requiem per il re morto si mischia ai festeggiamenti per il nuovo sovrano; l’inizio dell’ultimo atto: sono tutti esempi di drammaturgia quale l’opera italiana non aveva forse ancora conosciuto.
Ma in genere tutto questo Amleto vibra di un’energia giovanile, disordinata, impetuosa, in una partitura di ambizioni enormi, leggendo la quale è facile cercare ispirazioni e citazioni: il Verdi di Rigoletto (quel preludio per 4 violoncelli solisti, a parti reali, e violino!) e quello del Macbeth, addirittura semi-citato; il grand-opéra meyerbeeriano; il primo Wagner. Ma — come giustamente affermava il Maestro Grazioli nella citata tavola rotonda — tutto viene superato e sintetizzato in una scrittura esuberante, pur se talora velleitaria (i tipici effetti bellissimi da leggere su carta ma poi quasi impossibili da rendere in sede di concertazione), e spesso originale; anche se passando da Genova a Milano (e il fiasco del Mefistofele del 1868 ponendosi come monito a Boito e Faccio) l’opera viene in un certo senso normalizzata nel segno di un forte inserimento di “melodia” tradizionale: la cavatina d’entrata d’Ofelia, la modifica di “Essere o non essere”, un’aria per Gertrude (questa davvero scritta in modo iper-convenzionale, con tanto di cadenza finale) e un nuovo finale, senza la morte di Amleto. Ma essendo andato perso il “nuovo” quarto atto, la versione veronese è risultata essere un misto di Scala 1871 (i primi tre atti) e Genova 1865 (il quarto): il risultato è un’opera estrema, esagerata, ma sempre provvista di quello “spirito vitale” che Gavazzeni considerava la discriminante per valutare la possibilità di un titolo di reggersi sul palcoscenico. Questo, ovviamente, si doveva in gran parte alla qualità dell’esecuzione: che mi è parsa davvero alta. A partire dal podio, dove Giuseppe Grazioli (chiamato al posto di un collega poco più di un mese fa!) ha dato una prova esemplare di intelligenza e mestiere, nascondendo le velleità dell’orchestrazione di Faccio e garantendo sempre un equilibrio esattissimo tra banda, orchestra e cantanti; ma soprattutto insufflando una poesia sobria, un’eleganza che non toglieva quell’energia giovanile che caratterizza la partitura, e che ne occultava le sbilanciature e gli squilibri, supportato in questo da un’orchestra e un coro di eccellenza. In questo una pagina come la Marcia Funebre, con tutta probabilità la vetta dell’opera, era paradigmatica del lavoro di Grazioli, che non cercava la facile retorica, o mahlerismi ante litteram, ma creava un ponte con la pazzia di Ofelia ad essa precedente, con un lavoro di sottrazione assolutamente raffinato. E con lui Paolo Valerio, regista di estrazione teatrale al suo debutto nell’opera, è stato ammirevole nel creare uno spettacolo sobrio eppure intensissimo, fatto di proiezioni intelligenti, di pochi elementi carichi di simboli (il cappio nel Monologo di Amleto, le corde da burattino nella scena metateatrale della recita) e di una cura continua della recitazione, in scene e controscene che erano insieme evocative e descrittive.
Del cast, non solo si deve dire che surclassa quello dell’incisione Naxos, ma che appare difficilmente migliorabile: Angelo Villari, dopo il Ratcliff e la Campana sommersa si conferma campione dei ruoli impossibili, come questo di Amleto che è sempre in scena, o quasi, e la cui tessitura insiste con sadica difficoltà sul passaggio, anticipando in questo tante parti tenorili della Giovane Scuola. Non solo Villari risolve ogni momento con irrisoria facilità, ma lo fa con timbro virile e squillante, e un accento sempre intenso e appassionato: rispetto a lui fornisce un contrasto perfetto la soave, liliale Ofelia di Gilda Fiume, poeticissima in una pazzia davvero emozionante, nonché la cupa, ambrata voce di Marta Torbidoni, che trae quanto è possibile dal tormentato personaggio della Regina Gertrude. Ma tutto il ricchissimo cast — interamente italiano: questo è uno dei segreti della riuscita — era assolutamente scelto con certosina cura: e i risultati, con qualche minore entusiasmo per il Re di Damiano Salerno, si sono sentiti. Teatro piuttosto pieno e grande successo: che la storia esecutiva di Amleto possa ripartire da qui?
Nicola Cattò
Foto: Ennevi