L’Andrea Chénier che oltre due milioni di persone (sottoscritto compreso) hanno seguito alla tv, dinanzi a un maxischermo o in una sala cinematografica non è lo stesso andato in scena alla Scala, allo stesso modo con il quale un dvd non è mai l’esatta riproduzione dell’opera in teatro e un cd l’esatta riproduzione audio di un concerto strumentale live. Facendo nostra l’osservazione di McLuhan che “il medium è il messaggio”, l’Andrea Chénier che abbiamo visto e sentito era in gran parte “altro” da quello scaligero. A parte l’ovvia constatazione che nessuna riproduzione sonora, anche quella tecnologicamente più perfetta, può gareggiare con l’orecchio umano live per profondità e timbro, è sullo spettacolo che maggiormente incide una ripresa meccanica per quanto sofisticata possa essere; la conseguenza è che allo spettatore arriva la regia di una regia. Per l’occasione, avendo a disposizione dodici telecamere ad alta definizione, la regista televisiva Patrizia Carmine ha potuto di volta in volta scegliere le inquadrature da trasmettere realizzando così un montaggio filmico originale, laddove lo spettatore in sala ha avuto dinanzi agli occhi solo quattro scene fisse (una per ogni quadro) delle quali i giochi di luce potevano isolare questo o quel particolare. Vanno anche tenuti in conto i molteplici piani di ripresa a disposizione della regista — primissimo piano (volto), primo piano (dal collo in su), mezzo primo piano (dalle spalle in su), piano americano (dal busto in su) etc.– con relativi campi (medio, lungo, lunghissimo). Senza contare la possibilità di inquadrare un gesto della mano o un oggetto o di proporre immagini “impossibili” per il pubblico in sala: nel primo quadro si sono viste un paio di riprese dall’alto della festa nel salone De Coigny (in realtà il libretto prescrive un “giardino d’inverno”) improponibili agli spettatori in teatro.
Da tutto questo ne discende che un’idea realistica della regia di Mario Martone e della scenografia di Margherita Palli di Andrea Chénier si è ridotta a impressioni che delineano uno spettacolo ben congegnato, storicamente suggestivo, di impatto quasi cinematografico, proprio di una fiction di qualità. Del resto, sono anche la trama e le modalità con le quali personaggi la sviluppano a muoversi in quella direzione.
Per quanto riguarda l’audio, sono stati impiegati 40 microfoni tra buca e palcoscenico e 20 radiomicrofoni per i solisti, prassi per altro alla quale ricorrono ormai tutti i più importanti teatri del mondo. L’abissale discrepanza prima ricordata tra ascolto live e ascolto riprodotto non più non condizionare l’opinione sulle voci, apparse in gran forma per quanto riguarda Anna Netrebko come Maddalena e Luca Salsi nella resa di un ottimo Gérard, dei tre il personaggio drammaturgicamente più interessante. Atteso a una prova di grande impegno e preceduto da molti dubbi sulle sue possibilità di affrontarla in maniera adeguata, Yusif Eyvazov alla resa dei conti ne è uscito abbastanza bene: voce possente, ben controllata, dizione italiana perfetta, recitazione misurata, ha rivelato punti deboli nella leggerezza del registro grave, e in parte anche in quello medio, e soprattutto nel timbro. Tutto uguale, grigio, a danno della scrittura di Giordano, una tavolozza di colori assimilabile a quella di Puccini. Si è detto che il Maestro Chailly abbia “lavorato” molto con il tenore azero per questo ruolo; dai risultati si direbbe che Eyvazov abbia fatto un notevole passo avanti.
Ettore Napoli