GOUNOD Faust C. Castronovo, I. Abdrazakov, V. Ladjuk, I. Lungu, K. Kemoklidze, S. Korbey, P. M. Orecchia; Orchestra e Coro del Teatro Regio, Orchestra e Coro del Teatro Regio, direttore Gianandrea Noseda, regia, scene, costumi, coreografia e luci Stefano Poda
Torino, Teatro Regio, 3 giugno 2015
Stefano Poda è uomo di teatro globale e forse non approverebbe il fatto di essere giudicato partitamente. Personalmente sono convinto che il suo talento migliore sia quello scenografico e questo nuovo Faust torinese ne è un’eccellente dimostrazione. Quella del gigantesco anello sempre presente e capace di assumere gli assetti più svariati, quasi oggetto vivente e pensante, si è rivelata un’idea innegabilmente suggestiva. Era ancora migliore nei bozzetti, che gli attribuivano una consistenza materica corrotta, più affascinante di quella realizzata, liscia e ferrosa. Tuttavia l’uso delle luci, abilissimo e creativo, vi ha lavorato sopra di continuo, trasformandolo e plasmandolo. Poda gli ha attribuito una vasta gamma di significati, tra i quali ne ho scelto uno: «Il cerchio è l’anello in cui si chiude l’esperienza della vita». Al suo interno, una catasta di libri, nello studio del vecchio dottore. Tutt’intorno, grandi clessidre. Una faccenda “seria”, si pensa subito, all’alzarsi del sipario. E in effetti si vedrà un Faust filosofico, che guarda più a Goethe che a Gounod, che trascura il fatto che della sostanza del mito originario in quest’opera non resta che un guscio, passata com’è attraverso una lente borghese, dove l’ironico e il grottesco si mescolano al raffinato languore sentimentale della componente lyrique, nella quale risiede il suo massimo valore. Scelta la strada, lo spettacolo la percorre con coerenza, per fortuna senza eccedere nelle simbologie. Più che riflettere le psicologie nel gesto attoriale, Poda procede per immagini, talvolta fini a se stesse. Che possono essere felicemente poetiche e centrate, come quella di Marguerite che, illuminata da un proiettore che realizza ombre cinesi, canta la sua ballata ad una bimba. Oppure di gusto non di prim’ordine: è il caso di Méphistophéles che durante la serenata buca con uno spillo le pance di una schiera di donne gravide. Discutibili sono di certo le soluzioni “coreografiche”, dal nevrotico meccanicismo gestuale con la quale è stato risolto (si fa per dire) il valzer della kermesse, al convulsivo agitarsi di corpi verdastri che si producono anche in una sorta di tapis roulant umano. Occorre però riconoscere che alla fine l’impegno entusiasta, sincero e coraggioso di Poda è stato vincente ed ha soggiogato il pubblico senza riserve. Anche la parte musicale se ne è giovata, ricevendo accoglienze fin troppo generose. Il protagonista, Charles Castronovo, ha dimostrato buone intenzioni, ma non le risorse tecniche per realizzarle in modo compiuto. Né le caratteristiche della voce, centrale e poco luminosa oltre che piuttosto discontinua in termini di proiezione del suono, erano quelle ideali per la parte. Irina Lungu è stata una Marguerite nel complesso affidabile ma non particolarmente personale, mentre Vasilij Ladjuk ha delineato un Valentin vocalmente plausibile solo nella scena della morte, mancando della morbidezza e del sostegno sul fiato necessari per modulare adeguatamente l’aria del primo atto. Senza dubbio di caratura superiore il Méphistophéles di Ildar Abdrazakov, un po’ sfocato nel grave ma sicuro in zona acuta, corretto nella linea e apprezzabilmente lontano da istrionismi. Non mi sentirei però di dire che questo ruolo sia affine alle sue caratteristiche né da lui sentito come possono esserlo, per esempio, quelli verdiani. Ciò di cui si avverte la mancanza è la sensibilità di sfruttare veramente, in termini di fraseggio, accento, inflessioni, colori e nuances, tutte le possibilità che la prosodia francese può offrire. Inevitabilmente il personaggio ne risente, è pallido nel carattere. Infine, Gianandrea Noseda, che ha diretto con la consueta autorevolezza ed energia, assecondando la visione di Poda. Già nel Preludio, dopo un esordio di insistita lentezza e pensosità, la splendida frase melodica di Valentin, esposta con trattenuta emozione, ha ingenerato la sensazione che si sarebbe ascoltato un Faust austero, teso, drammatico, monocromatico. E così è stato, efficacemente, ma con ricadute meno positive sul versante leggero, elegante, salottiero e, forse ancora di più, sull’abbandono lirico. Il duetto del terzo atto è stato immerso in un’atmosfera di rarefazione quasi impressionista, interessante ma non se si pensa alla passionalità e all’afflato melodico di questa stupenda pagina. Sempre reattiva l’orchestra, salvo qualche lieve pecca nei fiati, e notevolissimo il coro guidato da Claudio Fenoglio.
Giorgio Rampone