DONIZETTI Anna Bolena F. Lombardi, S. Ganassi, C. Colombara, P. Pretti, M. Denti, M. Belli, G.S. Sala; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, direttore Ion Marin regia Marie-Louise Bischofberger scene Eric Wonder costumi Kaspar Glarner
Milano, Teatro alla Scala, 20 aprile 2017
Nelle parole del Sovrintendente Alexander Pereira e del Direttore Musicale Riccardo Chailly, riportare il Belcanto alla Scala (o comunque una fetta più ampia del repertorio protoromantico italiano) è una priorità dell’attuale gestione del teatro: ecco quindi che, in alternanza con la Gazza ladra (vedi la recensione) il pubblico può assistere alle ultime recite di quell’Anna Bolena che a Milano mancava dalle famigerate recite del 1982, quando si riesumò l’allestimento «callasiano» di Visconti e il pubblico reagì con ferocia alle bizze di Montserrat Caballé. Il problema è che un titolo, o una serie di opere, non si devono mettere in scena perché «va fatto», ma solo se ci sono le condizioni musicali e culturali per farlo: e questa Bolena, accolta malissimo dal pubblico nel corso delle prime recite, è stata un fallimento pressoché totale. Mancava, soprattutto, un progetto culturale: l’allestimento nasceva per la presenza di una diva carismatica quale Anna Netrebko, la quale però ha informato — per tempo — che il personaggio non avrebbe fatto più parte del suo repertorio. A questo punto Pereira, da scaltro giocatore di poker, ha puntato il tutto per tutto su Federica Lombardi, una giovane ragazza che proviene dai ranghi dell’Accademia, che aveva cantato una buona Contessa mozartiana per il Circuito lombardo e due parti minori nel Rigoletto e nella Cena delle beffe l’anno scorso al Piermarini: confidando forse nell’abilità maieutica e nella competenza stilistica e musicale di Bruno Campanella, il direttore previsto, si poteva forse pensare ad un progetto scevro da divismi ma musicalmente e musicologicamente serio. Venuto a mancare anche il Maestro pugliese, ecco incomprensibilmente apparire Ion Marin, da anni assente – e non a torto – dai podi di un certo livello internazionale: e insieme a lui, una nuova titolare per la maggior parte delle recite, ivi inclusa la prima, del ruolo di Anna, la russa Hibla Gerzmava, onesta professionista di mezz’età che certo non poteva avere i mezzi per fronteggiare un ruolo-monstre come questo. E poi c’è la questione della filologia, secondo me il problema centrale. «Riportare il Belcanto alla Scala» vuol dire soprattutto fare tesoro delle conquiste musicali e musicologiche (uso ancora i due termini insieme, non a caso) di almeno trent’anni di studi, di esecuzioni, di errori, di tentativi, che a Milano sembrano però non essere noti: sbandierare l’adozione dell’edizione critica curata da Paolo Fabbri, che nell’ottobre 2015 aveva debuttato a Bergamo con ben altri risultati, e poi sforbiciare così selvaggiamente la partitura, beh, che senso ha? L’integralità non è un feticcio autoreferenziale, ma è condizione necessaria per la ricostruzione di uno stile: amputare tutti (dico, tutti) i da capo nelle cabalette, sfrondare le code, ridurre i cori (non entro nel dettaglio: sarebbe penoso) vuol dire annullare la possibilità di variazioni, rendere la struttura della “solita forma” un moncherino irriconoscibile, come si usava decenni fa. Non mi scandalizzo per i trasporti verso il basso nelle arie di Percy — questa, anzi, è una pratica filologicamente ineccepibile: quella di accomodare la parte al cantante — ma per la riscrittura della sua parte che di fatto viene praticata: ciò vuol dire travisare completamente uno dei ruoli più mitici del Belcanto romantico, scritto per Rubini. Gavazzeni e Raimondi facevano di peggio in tal senso, è vero: ma eravamo nel ’57 e non si accampavano pretese “filologiche” (per tacere della diversa statura degli artisti in campo). Oltre alla questione testuale, Ion Marin è un pessimo direttore: un’orchestra ridotta a un mezzoforte continuo, bloccata nella dinamica, impastata nell’articolazione, senza uno straccio di idea nella concertazione e con l’unico merito — se così si può dire — di non recare impiccio ai cantanti, che però sono abbandonati a loro stessi. Ascoltando Marin, quasi mi pento di avere eccepito sul lavoro del Maestro Chailly nella Gazza!
In questa anarchia, la povera Lombardi — bellissima figura, alta, espressiva — canta con voce di bel timbro e notevole corpo la lunghissima parte, con accenti più patetici che drammatici, ma con palese fatica nella coloratura e negli acuti estremi: le auguro, ovviamente, una carriera felice, ma dubito che essa troverà il suo baricentro in questo repertorio. Sonia Ganassi è una veterana del ruolo, ma gli anni passano e lo «scalino» nella voce è sempre più avvertibile, mentre Piero Pretti canta i resti del suo ruolo come se fosse un Nemorino, o un Duca di Mantova in trasferta; molto meglio, comunque, di Carlo Colombara, periclitante nell’intonazione e protagonista di un terzetto finale incommentabile. Sullo spettacolo di Marie-Louise Bischofberger, infine, preferirei tacere: descrivere e commentare una tale accozzaglia di banalità, luoghi comuni, totale inintelligenza del senso drammatico della musica, per di più immerso in una bruttezza e in un grigiore scenico perenne, sarebbe tempo perso. Applausi di cortesia, alternati a contestazioni, che hanno trovato nell’interprete di Enrico VIII il bersaglio principale.
Nicola Cattò