BERNSTEIN West Side Story L. Giacomelli Ferrarini, V. Appeddu, S. Di Stefano, G. Verzicco, S. Maio, P. Vicenti; Coro e Orchestra del Teatro Carlo Felice, direttore Wayne Marshall regìa Federico Bellone scene Hella Mombrini e Silvia Silvestri costumi Chiara Donato
Genova, Teatro Carlo Felice, 22 ottobre 2017
L’idea di inaugurare la nuova stagione lirica del Teatro Carlo Felice con un musical ha fatto ovviamente molto discutere. Personalmente non mi sono allineato aprioristicamente alla schiera dei detrattori: in fondo il Musical va visto ormai come una forma di teatro musicale ampiamente storicizzato, che può trovare dunque, tanto più se esemplificato dal suo riconosciuto capolavoro, diritto di cittadinanza all’interno di una stagione operistica in cui figurano quattro celebri melodrammi della grande tradizione ottocentesca (Rigoletto, Norma, Traviata e Lucia) accanto a un’opera nuova (Miseria e nobiltà di Marco Tutino) e a un titolo novecentesco poco rappresentato (e che allude a sua volta al “teatro leggero”) come La Rondine di Puccini. Ma soprattutto, West side Story (che orgogliosamente Bernstein ha più volte accostato per contesto al Flauto Magico) contiene molti elementi che, senza voler sottovalutare i fattori musicali e drammaturgici che lo rendono autenticamente aderente al suo genere, lo possono avvicinare alla tradizione operistica: a partire dal plot, moderna revisione di Romeo e Giulietta, alla musica di Bernstein, ricca di finezze e allusioni alla tradizione sinfonica, fino alla stessa vocalità delle parti principali, che oltre a swing e mordente ritmico richiede di sostenere arcate non agevoli. Per non parlare della bruciante attualità di una vicenda che racconta delle difficoltà di integrazione in una “zona troppo piccola”, e della relativa guerra tra poveri che si accende tragicamente in scena.
Per tutti questi presupposti, sono rimasto piuttosto deluso nel constatare che la concezione produttiva di questa West Side Story non era costituita da un tentativo di includere il musical all’interno di uno scenario storico-drammaturgico più ampio, ma dall’ospitare semplicemente – a prescindere da quale sia stata nei dettagli la collaborazione tecnica tra il teatro e la World Entertainment Company – uno spettacolo che avrebbe potuto essere inscenato in qualunque arena italiana. Anche la preziosa opportunità di poter disporre di organici ampi e solidi come quelli del teatro genovese e di un direttore del livello di Wayne Marshall è andata in parte sprecata per la scelta di amplificare oltre alle voci anche l’orchestra, il che ha reso le sonorità impastate nei momenti lirici e chiassose in quelli più esuberanti, non permettendo di apprezzare pienamente le finezze della concertazione. L’azione scenica si è giovata senz’altro dell’ampiezza del palcoscenico per acquisire respiro, e dei suoi macchinari per rendere fluidi i cambi di scena, ma globalmente, appunto, è mancata quella fisionomia particolare che avrebbe potuto distinguere la produzione da tante altre del genere. Richiamare spettatori diversi da quelli abituali è un risultato non disprezzabile, di questi tempi: ma limitarsi a questo, senza nutrire l’aspirazione a raccontare qualcosa di nuovo, come si suol dire, sia al colto che all’inclita, sottolineando magari le connessioni tra i generi, credo sia culturalmente poco ambizioso. Una modestia di obiettivi confermata anche dalla scelta di proporre i dialoghi in italiano e i brani musicali in inglese: soluzione che risulta sempre un po’ artificiale e che si sarebbe potuta evitare in un teatro in cui abitualmente, com’è ovvio, si canta e recita in lingue anche ben più ostiche.
A prescindere da tali questioni di prospettiva, sicuramente opinabili, lo spettacolo in sé si è rivelato comunque valido: Marshall ha offerto una direzione ovviamente idiomatica ed estrosa, l’allestimento scenico si è giovato della riproposta (curata da Fabrizio Angelini) delle felicissime coreografie originali di Jerome Robbins, realizzate da un cast la cui qualità migliore era rappresentata proprio dalla flessibilità nel triplice ruolo di cantanti, ballerini e attori: i “concertati” sono in effetti apparsi i numeri più riusciti, come ad esempio il vulcanico “America”, che si è avvantaggiato dell’ideale contrasto di fisionomie tra la Rosalia di Martina Cenere e l’Anita di Simona Di Stefano. Quest’ultima è apparsa senz’altro la punta di diamante del cast: voce corposa e cremosa, figura sensuale, ha convinto sia nelle parti brillanti che in quelle più drammatiche (davvero intensa in “A boy like that”). Con una voce aggraziata ma “disneyana”, la cui esile freschezza si faceva stridula nel registro acuto, Veronica Appeddu ha invece fornito un ritratto un po’ troppo infantile di Maria; Luca Giacomelli Ferrarini al contrario ha esibito un bel timbro pieno, disegnando un personaggio davvero a tutto tondo e aderendo con malleabilità alle non facili richieste del ruolo di Tony; il cantante si è trovato a disagio soltanto col fatidico Si bemolle a voce spiegata di “Maria”. Efficace il Riff di Giuseppe Verzicco e come minimo adeguati tutti gli altri numerosi interpreti. La messinscena si incardinava su temi ed elementi ricorrenti, come le simboliche scale antiincendio e la dominante rossa che intendeva rappresentare non soltanto il sangue, ma la paura: efficace il contrasto con la rappresentazione del “candido” sogno di Maria e Tony in “Somewhere”.
Roberto Brusotti
(Foto: Marcello Orselli)