RZEWSKI The People United Will Never Be Defeated pianoforte Emanuele Arciuli
Reggio Emilia, Cavallerizza, 15 novembre 2023 (Festival Aperto)
Le Variazioni di Rzewski sul Pueblo unido che jamás será vencido (il canto cileno divenuto inno alla perduta libertà dopo il golpe fascista-“americano” di Pinochet) sono piuttosto note e – seppure con sporadica frequenza – eseguite: ma è come se Arciuli, a Reggio, le avesse nuovamente rivelate. Data per scontata la brillantezza del testo – evidente nella superficie ipervirtuosistica della scrittura –, il pianista salentino s’è prodigato, con la sua interpretazione, per trarre alla luce le ombre, i rigurgiti, i divertissements, gli ammiccamenti umorosi, le allusioni ‘a buon intenditor’, le citazioni esplicite o mimetizzate di cui la partitura è disseminata e che vanno ben al dilà degli inserimenti riconoscibilissime anche a non esserne stati previamente informati dei temi di Bandiera rossa e del Solidaritätslied di Eisler. Perché il capolavoro di Rzeswki va oltre l’insegna ‘canto alla libertà’: esso è, prima di tutto, un inno all’intelligenza. Intelligenza compositiva, per come sapientemente struttura un lavoro complesso ma mai enigmatico; intelligenza storica, per come — non lasciandosi condizionare da un linguaggio ma con piena libertà mentale facendosi sedurre da tutti i possibili (dall’avanguardia stricto sensu al pop, dal romanticismo più melodico alla sapienza contrappuntistica, eccetera) – si pone in una continuità, appunto, storica con la più nobile tradizione musicale, dalla sua maturità ‘classica’ (Beethoven, soprattutto), alle curiosità novecentesche verso i folklorismi (sorta di ritorno alla natura, coi crismi dell’intellettuale), come li intesero e rielaborarono un Bartók o uno Janáček, alle mode (allora, le Variazioni stanno per compiere i loro primi 50 anni) recenti del pop e (contraponto bestiale alle menti) dell’avanguardia. In tal modo Rzewski (attraverso la mediazione irrinunciabile di Arciuli) ci dice che non si dà libertà senza intelligenza, perché intelligenza è libertà.
Arciuli non la mette giù dura (basta guardarlo sonare, senza alcuna posa), non fa un trattato di filosofia, non si veste da Wittgenstein che poi riuscire a stargli dietro (l’opera, a passarla al setaccio dell’analisi microscopica lo permetterebbe anche, a tavolino), semplicemente suona: con bravura, con apparente semplicità. Ma da quei balzi sulla tastiera egli cava più di quanto nessun altro da me finora ascoltato in quell’opera abbia saputo trarre e voluto comunicare. L’evidenza, dunque, del modello beethoveniano fin dal trattamento del tema e delle prime variazioni, (le Diabelli, ovviamente ma anche le Bagatelle, sintesi perfetta e pre-weberniana di miniatura a completo dettaglio – il foglio di sala riferiva anche le Goldberg bachiane, ma a me meno parvero entrarci), i ritorni saltuarî, ma riconoscibilissimi ed ossessivi (proprio a causa della loro inequivoca riconoscibilità) dei Quadri di un’esposizione – Musorgskij prelude a Bartók, con un più d’ebbrezza e un meno di sapienza, piatti contrapposti di una bilancia che tiene in uno la forza espressiva del dramma, sull’altro la lucida analisi in profondità della crisi da affrontare e, possibilmente, risolvere sortendone vivi.
Ed è proprio Bartók (und Beethoven ist auch dabei, per non dimenticare il caro Ligeti, con Chopin e Steve Reich) che alla fine vince, almeno nella lettura vuota di retorica d’Arciuli che, anche nei passi di più travolgente virtuosismo, evita l’effetto bombastico senza dover raffreddare la temperatura. Quando il pianista ha sonato l’ultima nota, nessuno se l’aspettava, l’ora di musica era volata senza che ci se n’accorgesse: ma immediatamente dopo, passata l’ebbrezza dell’applauso, abbiamo sentito tutto il peso (terribile e benefico) di quella mole di intelligenza, di libertà.
Un bis con uno struggente, melanconicissimo canto navajo, ripensato con abile mano forse (pei miei gusti) intrisa più del necessario di sentimentalismo new age da un compositore nativo americano e la conclusione con un aforistico Beethoven/Rzewski che tornava tutti i conti.
Il teatro vale per serate come questa.
Bernardo Pieri