BELLINI I Capuleti ed i Montecch, P. Gardina, F.P. Vitale, D. Tuscano, W. Corrò, A. Rosalen; Iris Ensemble, FORM Orchestra Filarmonica Marchigiana, direttore Tiziano Severini regia Stefano Trespidi scene e costumi Filippo Tonon
TARALLI Delitto all’isola delle capre S. Janelidze, F. Vinci, Y. Tkachenko, A. Silvestrelli, A. Fiocchetti; Time Machine Ensemble, direttore Marco Attura regia Matteo Mazzoni scene e costumi Josephin Capozzi
Teatro Pergolesi di Jesi, 6 e 25 novembre 2022
La prima cosa che stupisce, nel recarsi al Teatro Pergolesi di Jesi per I Capuleti ed i Montecchi di Bellini è notare che quest’opera mancava nella cittadina marchigiana dal 1834 (un’ulteriore serie di recite, prevista per il 1836, non andò mai in scena per una epidemia di colera): considerando le rarità allestite al Pergolesi negli ultimi 30 anni (non solo di Pergolesi e Spontini nell’ambito del Festival a loro dedicato, ma anche il ciclo di rarità marchigiane, immortalato in cd dalla Bongiovanni, che vide la rappresentazione di Giulietta e Romeo di Vaccaj nel 1996) sembra quasi incredibile che il teatro in cui Blake e la Dragoni portarono al trionfo una memorabile edizione del Pirata, opera ben più complicata, non abbia mai portato in scena la versione belliniana degli amanti veronesi nel corso del XX secolo… ma tant’è. Si rimedia in questo 2022 con un allestimento in coproduzione con i teatri veneti in cui spicca la rivelazione di una grande Giulietta, Francesca Pia Vitale, tra i vincitori del 50 Concorso Internazione per Cantanti Lirici “Toti Dal Monte”. Interprete intensa e emozionante, la Vitale canta anche molto bene, con bel legato, ottima espressività e una grande attenzione alla parola; in più è anche una bella ragazza, che in scena si muove e sa stare con naturalezza: ove limasse alcuni eccessi dovuti all’immedesimazione nel personaggio (un po’ fuori stile i singhiozzi nel duetto con Romeo del I Atto) sarebbe ancora migliore ma già così si tratta di una bellissima interpretazione. Nome da tenere d’occhio. L’altro vincitore del Concorso era Davide Tuscano, un buon Tebaldo, che se è parso meno in evidenza è anche perché la parte, oggettivamente, non gli consente gli stessi momenti di protagonismo di cui usufruisce al contrario la Vitale. Il Romeo di Paola Gardina ha giocato la carta di un’adolescenza irrequieta e rabbiosa, anche (ed è tocco non banale) nei confronti dell’amata Giulietta: nel complesso si è trattato di un’incarnazione convincente, a dispetto di qualche eccesso scenico e alcune lievi tensioni in acuto. Bene i due bassi, sia il Lorenzo di William Corrò che il tonante Capellio di Abramo Rosalen. Sul podio della Form (orchestra che, dopo anni di bella crescita, sembra ora abbandonata a se stessa dalle istituzioni, come denunciano gli stessi lavoratori… e sarebbe un peccato rischiare di perdere una realtà così preziosa per la Regione) c’era Tiziano Severini, che nel 1996 diresse anche l’opera di Vaccaj, sempre a Jesi, artefice di una direzione un filo troppo muscolare nei momenti più drammatici, in cui non mancava un certo fragore, ma nel complesso attenta ai valori della drammaturgia belliniana e alle esigenze dei solisti. Debole, invece, la prova del Coro (Iris Ensemble) mentre lo spettacolo con regia di Stefano Trespidi si è mosso nel solco di un’apprezzabile tradizione all’interno di un’elegante scena fissa di Filippo Tonon, evidentemente pensata per favorire la rotazione dell’allestimento, che tocca in questa stagione ben quattro teatri. Successo molto caloroso, alla seconda recita, da parte di un pubblico folto ed emozionato. Un pubblico folto ha accolto anche (e non era affatto scontato) la prima rappresentazione assoluta di Delitto all’isola delle capre, nuova commissione per la musica di Marco Taralli su libretto di Emilio Jona tratto dal testo omonimo del drammaturgo marchigiano Ugo Betti (i cinefili ricorderanno anche un film basato sulla stessa pièce, Les Possédées di Charles Brabant del 1956). Originario di Camerino, Ugo Betti è figura, oggi, non troppo conosciuta, almeno al di fuori dei suoi luoghi natali, ed è un peccato perché di autore molto interessante si tratta, in grado nei suoi testi di indagare con notevole perspicacia gli abissi dell’animo umano, così come avviene in questo Delitto, in cui l’arrivo di un giovane e affascinante straniero in un gineceo abitato da una vedova (Angelo, lo straniero, dice di essere compagno di guerra del marito morto), sua sorella e sua figlia su di un’isola solitaria, sconvolge i fragili equilibri delle tre donne fino al tragico finale, con l’uccisione (involontaria?) dello straniero, la fuga di due delle donne e il cupio dissolvi della vedova che si stende accanto al pozzo in cui si trova il cadavere di Angelo, in attesa. Il testo originale, tanto lungo di parole quanto povero di azione vera e propria, è stato adattato in maniera efficace da Jona, per quanto la scarsa durata dell’opera (90 minuti complessivi) sia apparsa forse sottodimensionata rispetto a una trama in cui proprio la lunghezza dei dialoghi e dei confronti servono a definire la complessità di caratteri che, nell’adattamento, risultano necessariamente un po’ semplificati; la musica di Marco Taralli riveste la materia di spunti interessanti e suggestivi, in particolare nei momenti sinfonici in cui l’orchestra traduce in sonorità evocative il mondo solitario e quasi primitivo dell’isola delle capre spazzata dal vento. Ha contribuito alla riuscita anche il bello spettacolo con regia di Matteo Mazzoni e scene e costumi di Josephin Capozzi (vincitrice della II edizione del Concorso dedicato a Josef Svoboda “Progettazione di Allestimento scene e costumi di Teatro Musicale” riservato a iscritti e/o neodiplomati al Biennio di Specializzazione in Scenografia delle Accademie di Belle Arti di Macerata, Bologna e Venezia): la vecchia casa con torre prevista da Betti è stata sostituita da un più prosaico camper, sostituendo l’interno previsto dalla drammaturgia con un esterno in cui alle luci di Marco Scattolini era affidato il compito di sottolineare la cupezza della vicenda, con esiti efficaci e raffinati. Efficace anche la compagnia di canto: Andrea Silvestrelli, nel ruolo di Angelo, sacrifica un po’ l’aspetto più pacato e tranquillo del personaggio in favore di una ruvidità quasi animalesca non priva di suggestione ma, nel complesso, risulta efficace, anche grazie all’impressionante presenza scenica. I ruoli delle tre donne, nella complessità del rapporto che le lega, sono quelli che più di tutti soffrono dell’adattamento, perché le priva di dialoghi che lentamente portano alla luce le loro fragilità (per quanto i momenti più importanti siano stati tutti brillantemente riassunti dal testo di Jona), chiedendo quindi alle interpreti di riuscire a condensare in poche battute la complessità dei personaggi: sia Sofia Janelidze (Agata, la vedova) che Federica Vinci (Pia, sua cognata) che, infine, Yulya Tkachenko (Silvia, figlia di Agata e del marito morto) sono riuscite nell’impresa, schizzando tre ritratti femminili di forte impatto. Completava il cast Alessandro Fiocchetti nel ruolo di Edoardo. Pubblico, come già detto, numeroso e attento, che al termine dei tre atti (eseguiti senza soluzione di continuità) ha tributato agli artefici della rappresentazione un caldo successo. Lo spettacolo, in coproduzione con il Teatro dell’OperaGiocosa di Savona, è stato portato dalla Fondazione Pergolesi Spontini anche a Camerino, città natale di Ugo Betti, per un’ulteriore recita all’Auditorium Benedetto XIII.
VERDI Macbeth G. Myshketa, G. Margheri, L. Fridman, M. D’Ottavi, M. Roma, G. Settanni, W. Corrò, F. Campoli, G. Lanzarone; Coro del Teatro Ventidio Basso, FORM Orchestra Filarmonica Marchigiana, direttore Diego Ceretta regia scene, costumi e luci Pier Luigi Pizzi
Teatro della Fortuna di Fano, 26 novembre 2022
Non è cosa di tutti i giorni assistere a un buon Macbeth, soprattutto se in locandina spicca la presenza di nomi per lo più nuovi e relativamente giovani, ma quello che ha inaugurato la Stagione 2022/23 della Fondazione Rete Lirica delle Marche è stato un Macbeth davvero da ricordare, a cominciare dall’allestimento dell’unico decano della compagnia, ossia Pier Luigi Pizzi, tuttavia eternamente giovane nella capacità di ideare uno spettacolo in grado di coniugare semplicità e spettacolarità in egual misura: l’uso di suggestivi video su schermo (raffiguranti per lo più austere sale di castello o cieli tempestosi e solcati da nubi minacciose) non solo contribuisce a definire l’atmosfera cupa dell’opera ma si rivela, nella scena delle apparizioni, come un aggiornamento “filologico” delle novità scenotecniche (la famosa “lanterna magica”) che nel 1847 infiammarono la fantasia verdiana alle prese con questo dramma soprannaturale. A volte Pizzi, in passato, è caduto nella tentazione del manierismo e dell’autocitazione, ma non è stato il caso di questo spettacolo, con una realizzazione fresca, intrigante e, soprattutto, ottimamente modellata sulle caratteristiche del cast a disposizione. Cast che è stato valorizzato anche dalla direzione di Diego Ceretta: dopo il brillante Matrimonio segreto anconetano Ceretta si conferma tra i giovani talenti più interessanti del nostro presente lirico. Il suo è stato un Macbeth (versione di Parigi, senza l’innesto della morte del protagonista come spesso va di moda oggi) non solo ottimamente diretto, ma anche benissimo gestito nei tempi e nelle sonorità, con grande equilibrio tra palco e buca e un’ottima tenuta della tensione narrativa, coadiuvato in questo dall’ottima prova della FORM – Orchestra Filarmonica Marchigiana e dal Coro del Teatro Ventidio Basso. Peccato solo per i tagli, dei ballabili ma anche del da capo della prima cabaletta della Lady, ma si tratta di poca roba rispetto alla compattezza drammatica che Ceretta ha cercato e trovato, stendendo sull’intera esecuzione un colore livido di rara suggestione. Un nome, il suo, da tenere d’occhio. Nel cast ha brillato la Lady di Lidia Fridman: un’incarnazione brillante e inquietante, che vocalmente ha dominato le asperità della parte senza mai cedere all’urlo (la non eccessiva dimensione dei teatri marchigiani ha certo aiutato) ma, anzi, con un fraseggio sempre ottimamente calibrato e un’inquietante e diafana presenza scenica. Una prova sorprendente, considerando alcune acerbità di altre precedenti performance della giovane artista, da parte di una cantante che, vista la disinvoltura nel gestire le agilità, mi piacerebbe anche sentire alle prese con certo Donizetti “sporco” e inquieto (magari una Maria de Rudenz), augurandole che il colore metallico del timbro non spinga i teatri a chiederle solo ruoli da cattiva o parti ancora più pesanti della Lady. Al suo fianco è stato bravo Gezim Myshketa, un Macbeth debole e spaventato, che qua e là esagera un po’ con l’interpretazione sacrificando la compattezza della linea vocale all’urgenza drammatica (è il caso della scena delle apparizioni) ma che tratteggia un personaggio coinvolgente e sentito. Gianluca Margheri è un Banco di vocalità apprezzabile e presenza scenica impressionante, cosa che consente a Pizzi una gestione quantomeno originale della scena del banchetto, mentre Matteo Roma presta a Macduff una bella voce di tenore lirico che non avrebbe bisogno di qualche sparsa (e pericolosa) ingrossatura al centro, perché passa comunque l’orchestra già bene così. Ben scelti gli interpreti dei ruoli minori per uno spettacolo che il pubblico ha salutato con un successo franco e caloroso, meritatissimo.
Gabriele Cesaretti