BOTTER Les Jeux d’Arlequin (prima esecuzione assoluta) STRAUSS Till Eulenspiegels lustige Streiche ORFF Carmina Burana percussioni Claudio Bettinelli soprano Giuliana Gianfaldoni controtenore Filippo Mineccia baritono Christian Senn Orchestra Sinfonica e Coro Sinfonico di Milano Giuseppe Verdi, direttore John Axelrod
Milano, Auditorium Fondazione Cariplo, 18 giugno 2015
Dal 2000 in Italia è legale la pubblicità comparativa: figuriamoci, dunque, se ci sono problemi nel fare confronti, anche scomodi, in una recensione musicale. Ma lo faccio non per amor di polemica, ma per inquadrare meglio alcuni aspetti del concerto della Verdi cui ho assistito ieri sera, che accostava una prima assoluta di Massimo Botter a due partiture celebri e di impervia esecuzione come il Till e i Carmina Burana. Partiamo dalla novità della serata, e facciamo passo indietro, fino al 10 giugno scorso, quando Luis Bacalov, compositore immensamente più celebre e celebrato di Botter, presenta a Lugano la sua novità, Porteña per due pianoforti e orchestra, solisti Martha Argerich – nientemeno – ed Eduardo Hubert: bene, si trattava di oltre venti minuti di banalità assolute, un frullato di couleur locale argentina con luoghi comuni musicali, senza originalità, senza idee, senza niente che non fosse una vaga piacevolezza d’ascolto, questa innegabile. Botter, invece, compositore 50enne milanese, firma Les Jeux d’Arlequin, una stupefacente partitura (di durata simile a quella del Bacalov: e qui finiscono le analogie) che lo stesso autore ha presentato sul numero di giugno di MUSICA e che era affidata al (ma sarebbe meglio dire costruita sul) funambolico talento del percussionista italo-francese Claudio Bettinelli, che si presenta sul palco dell’Auditorium con tre tavoli su cui è disposta una serie infinita di percussioni, spesso molto singolari, dalle ciotole d’acqua ai clocheplac, dai tubi sonori ai ditali (sì, quelli da cucito!), dai tom a una serie di elementi ora intonati ora dal suono indefinito. La partitura coniuga in modo mirabile la dimensione visiva, teatrale (enfatizzata dalle riprese video del solista, proiettate in alto sopra l’orchestra) alla ricerca sonora, coinvolgendo il percussionista e gli altri musicisti in maniera inesausta: un dialogo continuo, che non esclude momenti di improvvisazione (una sorta di doppia cadenza, come se fosse un concerto classico), salti fra un tavolo e l’altro (funambolismi degni dell’Arlecchino evocato nel titolo) e una chiara progressione della partitura verso un finale in cui, se non possiamo parlare ovviamente di temi, sviluppo e tantomeno di una coda, l’urgenza espressiva si fa sempre più forte. Anche a livello armonico, benché non esistano tonalità di impianto, esse vengono quasi evocate attraverso un raffinatissimo accostamento di accordi che dà all’ascoltatore punti di riferimento, poi elusi e ricreati. Un completo successo, questi Jeux d’Arlequin: una partitura matura, in cui ricerca sonora, piacevolezza del far musica e persino un certo senso teatrale ed ironico convivono felicemente. Molto si deve, naturalmente, alla fenomenale bravura di Bettinelli, ma anche alla serietà e allo scrupolo con cui Axelrod e la Verdi hanno preparato questa non semplice novità: e qui torno all’inizio, al “gioco” dei confronti, perché, come il lettore potrà vedere leggendo il numero di luglio/agosto di MUSICA, la sera prima è andata in scena alla Scala una recita del dittico Cavalleria / Pagliacci in cui palese era il senso di routine, a partire da un’orchestra grigiastra, molle, mal diretta. Il che è l’esatto opposto dell’entusiasmo, della voglia di trascendere i propri limiti (che, sulla carta, sono maggiori), di farsi guidare nel far musica da un direttore di ottimo livello e di grande temperamento qual è Axelrod: il tutto nonostante la schedule della Verdi, in questo anno di Expo, sia semplicemente folle. Col Till, d’altronde, non si bara, ma le cose sono andate molto bene sin dal famigerato solo di corno, cui Giuseppe Amatulli conferiva intonazione inappuntabile e quel un senso di cordiale ironia che poi avrebbe dominato la pagina: una lettura leggera eppure dettagliata, ben suonata, divertita nel sottolineare talune asprezze armoniche, tutta dominata da un senso di cordialità bavarese, quasi tenendo alla mente – come mi ha confidato lo stesso Axelrod – Strauss che gusta una fetta di torta servito placidamente dalla moglie Pauline, in un clima del tutto gemütlich. Singolare, ma interessante: e l’esecuzione faceva benissimo trasparire questo assunto di partenza, svolgendolo poi coerentemente, in maniera inappuntabile. Meno singolari, infine, i Carmina Burana, tutti giocati su una certa estremizzazione dinamica, che portava a risultati ottimi (“Chume, chum”) ma anche a eccessive sospensioni (“Veris leta facies”): ma nella seconda parte le cose si mettevano a posto, e molto apprezzabile rimaneva la prova dell’orchestra, del coro (entusiasta, pur se non inappuntabile) e dei tre solisti, pur con qualche distinguo. Concerto lungo, cui una sala pienissima ha tributato un successo direi rovente, in cui si mescolavano affetto e gratitudine: ecco, torniamo sempre ai confronti con la Prima Istituzione Milanese…
Nicola Cattò